Ilva, una biografia nazionale

20 Giugno 2013 /

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di Loris Campetti (*)
Ilva eris, Ilva reverteris. In 108 anni di vita la siderurgia italiana ha cambiato nome più e più volte, fino a riconquistare la definizione originaria. Ilva è un nome di donna, scelto per indicare la più maschile delle produzioni, l’acciaio, che racchiude in sé l’immagine emblema del novecentesco homo faber. Ilva è anche l’antico nome latino dell’Elba, l’isola ricca di quel ferro di cui si nutrono gli altoforni per generare la ghisa, transito obbligatorio per arrivare all’acciaio.
Nel 1905 viene costituita l’Ilva grazie all’iniziativa di un gruppo di industriali del nord, interessati a sfruttare una legge firmata da Francesco Saverio Nitti per l’industrializzazione del Mezzogiorno, che decidono di mettere insieme le loro attività siderurgiche: sono i gruppi Elba (Portoferraio), Terni (Siderurgica di Savona e Ligure metallurgica) e Bondi (Piombino). Il capitale sociale di 12 milioni di lire sale rapidamente a 20 milioni.
Dopo oltre un secolo, dismessa Bagnoli e liberata Genova dagli altoforni, a quasi vent’anni dal passaggio dell’Ilva dallo Stato al padre-padrone Emilio Riva grazie a una delle più disgraziate privatizzazioni all’italiana, i capitali raggranellati dal “rottamaio” bresciano sulla pelle dei lavoratori e dei cittadini di Taranto e sequestrati dalla magistratura sono 9,3 miliardi di euro: 1,2 da parte della procura milanese per evasione fiscale in accoglienti paradisi fiscali attraverso il classico sistema delle scatole cinesi e 8,1 da parte del gip di Taranto, necessari ad ambientalizzare gli impianti, ridurre gli infortuni e risanare i guasti provocati alla salute e al territorio da un’associazione a delinquere finalizzata a fare utili a ogni costo. Del resto, un po’ di tumori in cambio di tanto lavoro, merce rara, secondo il pluri-intercettato figlio di Riva, Fabio, non sono che “una minchiata”. Su un muro della piazza pricipale di Taranto da mesi si legge “Fabio come Riina” e su uno striscione durante l’ultima manifestazione ambientalista c’era scritto: “Qualche anno di carcere? Una minchiata”.

Il bubbone Ilva è finalmente scoppiato e oggi, grazie soprattutto alla magistratura della città dei due mari, è possibile mettere a fuoco il sistema criminale dei Riva, un impasto di paternalismo e autoritarismo sostenuto da una rete di connivenze, complicità, silenzi e corruzione che coinvolge politici (a Taranto come a Roma), istituzioni, amministratori, periti, media, clero e gran parte del mondo sindacale. L’Ilva di Taranto vanta molti record: cuore della siderurgia italiana, l’impianto pugliese è capace di sfornare fino a 10,5 milioni di tonnellate d’acciaio che fanno vivere, e troppo spesso morire, complessivamente 40 mila lavoratori. Ma è anche il maggior produttore nazionale di diossina, polveri sottili e altre sostanze tossiche che hanno trasformato la perla dei due mari nella città più inquinata d’Italia. La procura parla di disastro ambientale e chiama per nome i responsabili: la famiglia Riva e i massimi dirigenti che si sono succeduti alla guida della società.
Riva odia i sindacati e non potendo abolirli li compra, li coopta, sostituendo il sistema partecipativo (da protocollo Iri, per intenderci) ereditato dalle Partecipazioni statali con un sistema paternalistico e dispotico al tempo stesso. Prima a Genova contro la rivolta delle donne di Cornigliano e poi a Taranto è riuscito a scatenare una feroce guerra tra poveri: operai contro cittadini, diritto al lavoro contro diritto alla salute. Operai pagati per scioperare e andare a bloccare la città in corteo contro la magistratura. In fondo, tolto l’aspetto tipico di Riva da padrone delle ferriere, alla base del suo modello c’è una “logica” non dissimile da quella di Marchionne: la logica dello scambio tra lavoro e diritti, la trasformazione del conflitto da verticale (la lotta di classe) a orizzontale (la lotta nella stessa classe, una volta perso di vista il responsabile dei guai che è e resta il padrone).
Va dato atto alla Fiom di aver fatto una grande pulizia al proprio interno, fino a riconquistare un’assoluta autonomia che vale molto più della cogestione della masseria Vaccarella dove ormai vanno a giocare a tennis solo i figli della Taranto bene. Fino a compiere il gesto più difficile ma al tempo stesso più responsabile per un sindacato come è quello guidato da Maurizio Landini: chiamare i lavoratori a non scioperare, se lo sciopero è contro la giustizia e se a comandarlo è il padrone. La Fiom ha capito che la contrapposizione tra due diritti fondamentali, al lavoro e alla salute, è un imbroglio che va rinviato al mittente e che oggi è prioritaria la ricostruzione del rapporto tra città e fabbrica, vittime dello stesso sistema criminale.
Dal luglio 2012 la cronaca da Taranto non ha dato tregua, sotto l’incalzare delle iniziative e delle ordinanze della magistratura, costruite Carta costituzionale alla mano. Dagli arresti dei Riva e dei loro dirigenti, dei corrotti e dei corruttori, accompagnati dal sequestro degli impianti dell’area a caldo e successivamente del prodotto finito e semilavorato per più di un miliardo di euro, fino all’ordine di custodia cautelare per il presidente della Provincia di Taranto ed ex segretario della Cisl Giovanni Florido e, soprattutto, fino al maxi-sequestro del capitale imboscato dalla famiglia del rottamaio bresciano. Una prospettiva che fino a un mese fa sembrava poter vivere solo nella mente di vetusti marxisti come il commissariamento dell’Ilva, oggi è una sensata realtà (per quanto con un commissario a dir poco discutibile), dopo le dimissioni “spintanee” di tutto il gruppo dirigente dell’Ilva (i proprietari erano già stati interdetti dalla gestione aziendale).
L’Italia non può fare a meno della siderurgia, salvo far esplodere la bilancia commerciale e non può fare a meno delle decine di migliaia di posti di lavoro che a essa sono collegati. Peraltro, i tarantini non possono continuare ad ammalarsi e morire di inquinamento. L’acciaio si può produrre in sicurezza, dei lavoratori e dei cittadini, così come avviene a Duisberg o a Linz, dunque il ciclo deve essere ammodernato e ambientalizzato. Il territorio, le falde acquifere, il Mar Piccolo, i terreni e i pascoli avvelenati dai Riva devono essere bonificati. Tutte queste esigenze possono stare insieme a una sola condizione: liberandosi dei Riva, ma riprendendosi il maltolto dei Riva per le bonifiche. Vogliamo chiamare tutto ciò nazionalizzazione? Dovremmo essere noi i primi a non farci spaventare dalle parole.
(*) autore di “Ilva connection, inchiesta sulla ragnatela di corruzioni, omissioni, colpevoli negligenze, sui Riva e le istituzioni” (Manni editore)

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