Né verità né rivoluzione. Risposta a Norma Rangeri

13 Giugno 2013 /

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Il Manifestodi Mariuccia Ciotta, Angela Pascucci, Loris Campetti, Maria Teresa Carbone, Alessandra Cicchetti, Ida Dominijanni, Sara Farolfi, Marina Forti, Cinzia Gubbini, Maurizio Matteuzzi, Valentino Parlato, Francesco Piccioni, Gabriele Polo, Doriana Ricci, Roberto Silvestri, Roberto Tesi (Galapagos), Gianna Zanali e Guido Ambrosino
Verità, rivoluzione. Parole grandi, impegnative, che purtroppo non si attagliano alla frattura che si è operata all’interno del Manifesto e alla sua situazione attuale, ma servono solo a nascondere una sostanza dagli aspetti miserevoli. Quella che ben emerge dalla risposta di Norma Rangeri all’intervista su Repubblica a Rossana Rossanda.
Risposta che meriterebbe di essere ignorata se non fosse gravemente offensiva della realtà e dei sentimenti più profondi di un gruppo di persone che non hanno affatto “abbandonato la nave, pensando solo a se stessi, senza alcun interesse per la sorte del Manifesto“, ma sono state costrette ad andarsene. Non è necessario che gli ostracismi siano formali. Basta rendere l’aria irrespirabile giorno dopo giorno, far capire ai compagni storici che la loro presenza in redazione non è più gradita, trattare i bastian contrari, che pretendono di discutere le modalità di uscita dalla crisi e gli obiettivi futuri per rilanciare un giornale alle corde, come dei sabotatori, nemici della sopravvivenza. Quel che segue porta a una fine nota e inevitabile.

Una “forte divisione politica”? Ma dove e quando è stato mai possibile discutere su differenze e divisioni? Se ciò fosse accaduto si sarebbe potuto persino constatare che il gruppo poi allontanatosi non era certo una falange, piuttosto un gruppo di persone dalle culture e dalle sensibilità diverse ma unite da un’esperienza unica e da un unico intento: ridare al Manifesto un ruolo all’altezza dei tempi, così da rilanciarlo e renderlo più autorevole. C’è stato invece il sequestro del confronto politico tra chi si è adagiato sul “pluralismo” e sul vivere di rendita, e chi, allenato al “metodo Manifesto“, pretendeva un “corpo a corpo” con la realtà mutante. C’è stata una progressiva esclusione delle idee, anche contrastanti, di noi inquieti manifestini di ogni età a favore di una normalizzazione giornalistica. Dopodiché, in uno spericolato capovolgimento dei fatti si è addebitato al gruppo storico e ai fondatori un sentimento nostalgico contro il pensiero “giovane” e vivace.
Al dunque, quella che si è consumata è stata una squallida resa dei conti da parte di chi ha scelto il “primum vivere” invece della ricerca di un senso nuovo dell’impresa di un quotidiano che ha sempre voluto essere anche una “forma nuova della politica”. Resa dei conti politica, certo, come poi è stato chiaro, e che tuttavia non si è avuto il coraggio di rendere palese temendone gli effetti. Oggi Norma Rangeri preferisce aggrapparsi alle dichiarazioni di Rossana Rossanda per screditarne il pensiero più complesso, sminuirne l’inquietudine e respingerla in una retroguardia che non appartiene né a lei né al gruppo che se n’è andato. Sarebbe stato più onesto un aperto confronto al momento opportuno.
Quanto al “pensare solo a se stessi”, ciascuno di coloro che se ne sono andati continua sulla propria strada, ma portandosi dietro un doloroso senso di perdita del luogo che per decenni aveva contribuito a costruire e a difendere. E, per completezza d’informazione, è bene ricordare che tra questi ci sono anche lavoratrici e lavoratori di settori non giornalistici che, al di fuori dei recinti della corporazione, pagano oggi un prezzo materiale altissimo per la propria scelta.
Chi è rimasto ha oggi nelle mani un giornale ripulito da tutti i suoi debiti e ancora in grado di costituire un riferimento per la squassata sinistra italiana, e non certo per l’attrattiva guadagnata nell’ultimo anno ma per il prestigio conquistato in oltre quattro decenni. Prestigio che certo si era venuto appannando, altrimenti non saremmo entrati in una crisi tanto grave, ma che nondimeno fa ancora oggi del Manifesto l’unica esperienza editoriale di sinistra esistente.
I collaboratori che Norma Rangeri esibisce appartengono all’area del giornale da molto tempo prima che arrivasse a gestirlo la New Coop. È legittimo, e questo sì “intellettualmente onesto”, chiedersi che credito avrebbe avuto quest’ultima ai loro occhi se fosse dovuta ripartire da zero, con una testata meno storica e prestigiosa.
Ma è anche legittimo interrogarsi sul perché questi collaboratori abbiano voluto leggere la spaccatura del Manifesto come un’irrilevante lite di famiglia e non siano voluti intervenire nella sostanza delle questioni che venivano poste. Non si chiedeva, almeno da parte di chi si stava battendo, di fare il tifo per l’una o per l’altra parte, ma di cogliere dell’intera vicenda il senso più profondo che, possiamo ben dirlo davanti al panorama che la politica italiana oggi offre, riguarda l’intera sinistra italiana, e dunque anche loro.
Le vicende del nostro paese, ma anche quelle del mondo, rivelano una drammatica doppia crisi: politico-istituzionale e del sistema di informazione. Le due crisi hanno aspetti legati e speculari che segnalano un cedimento strutturale del sistema di governo e di rappresentanza ma anche di lettura e rappresentazione della realtà. Il Manifesto è pienamente dentro questo gorgo e sarebbe stato bello se un “intellettuale collettivo che parla a tutta la sinistra”, come Norma Rangeri definisce i collaboratori del giornale, si fosse dato la pena di discuterne. Dispiace, e molto, che così non sia stato. Un’occasione importante perduta. Perché di fatto quelli che il Manifesto oggi espone sono i frammenti di una realtà spezzettata. Quanto di più dolorosamente inutile si possa concepire per uscire dalle difficoltà in cui la sinistra affoga.
Per tornare alla risposta di Norma Rangeri, nessuno di noi si è sentito fustigare da Rossana Rossanda “per non aver saputo combattere”. Di sicuro ci siamo sentiti traditi e brutalizzati da metodi di confronto che non avremmo mai pensato potessero avere corso all’interno del “nostro” Manifesto. La brutalità è un’arma potente, come le guerre insegnano, ma prevalere con tali metodi non può essere considerato una “vittoria”. Ci permettiamo tuttavia di pensare che, se sconfitta c’è stata, questa non riguardi solo noi.

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