di Ida Dominijanni
Nella migliore tradizione del peggior comunismo l’attuale direttora del manifesto, che non tralascia occasione di autocelebrarsi come la più modernista, la più laica e pluralista e la più innovativa fra noi (ma si dovrebbe aggiungere, dato che la storia ha un senso: la meno anti-craxiana e la più filo-occhettiana), gestisce il giornale come la Pravda. Alla faccia del pluralismo con cui gratifica la vetrina dei collaboratori esterni, non appena uno o una di noi – preferibilmente Rossanda (la Repubblica 7/6/2013), con la quale si ostina a ingaggiare un perdente corpo-a-corpo – osa dire qualcosa di una storia che gli/le appartiene, si mette al computer e ristabilisce “la” Verità istituzionale del manifesto, come se appartenesse solo a lei (“La verità è rivoluzionaria”, il manifesto 8/6/2013).
La verità però non è solo un effetto del potere, ma anche, e di più, dell’autorità: e per essere autorevoli, e quindi credibili, non bastano le mostrine da direttore, né la firma in prima pagina. La verità inoltre, salvo che per i fondamentalisti, non è mai una, né tantomeno è istituzionale: nei limiti in cui può essere oggettiva è consegnata all’archivio del giornale, per il resto è inevitabilmente soggettiva, e ci vorranno parecchi racconti soggettivi per restituire una storia plausibile e veritiera del manifesto. La verità infine, questo lo dico soprattutto ai lettori e alle lettrici del giornale che non smettono di chiederci conto di com’è andata, non è sempre eroica: a tutti piacerebbe poter dare o poter ascoltare il racconto eroico di uno scontro politico epico che ha diviso il manifesto, ma purtroppo non è andata così. La fine, del resto, è spesso insensata, e viceversa: se avessero sempre senso, le cose non finirebbero mai. Se al manifesto ci fosse stato un epico scontro politico, il manifesto non si sarebbe spaccato: ne sarebbe stato rivitalizzato, come tante volte in passato.
Al passato, un passato ormai lontano, primi anni ’80, appartiene anche lo scontro fra fautori di un giornale-partito e fautori di un giornale-giornale, la rappresentazione ridicola che l’attuale direttora si è data e ha pubblicamente dato del nostro esodo, pescandola dai suoi evidentemente pochi ricordi disponibili della vita di redazione. Questa rappresentazione ridicola, cui la direttora di nuovo allude nel suo ultimo editoriale, serve solo a coprire la tenace pratica di spoliticizzazione e normalizzazione del manifesto portata avanti dalla sua attuale governance. Altro che scontro politico: è stata la delegittimazione del terreno stesso del confronto politico e culturale, nonché la distruzione della pratica di relazione che teneva in vita il collettivo, a decretare la diaspora del manifesto. Di questo, nell’andarcene, abbiamo già scritto, in gruppo e individualmente (cfr. gli interventi miei, di Mariuccia Ciotta e Gabriele Polo, di Angela Pascucci, Loris Campetti, Maurizio Matteuzzi e altri sul manifesto del 31/10, 1/11 e 3/11 2012, e il testo collettivo Così vicini, così lontani del 22/12/12); e mi stupisce non poco che tanti lettori e lettrici continuino a dire che “non capiscono”. Dovevamo essere più chiari? Lo saremo, a tempo debito. Nell’elaborazione dei lutti si tace, a volte, per tutelare l’oggetto perduto.
L’attuale direttora invece non tace e non tutela niente, e anzi continua a brandire come un machete la sua versione dei fatti. Che adesso è diventata, papale papale, la seguente: ce ne siamo andati abbandonando la nave mentre affondava. Qui siamo, veramente, oltre il limite della diffamazione, e dentro la più vieta retorica del piccolo potere che si autovittimizza per far fare agli altri la parte del carnefice. Come dovremmo rispondere a questa infamia? Con l’elenco delle battaglie cadute nell’indifferenza, delle proposte mai prese in considerazione, delle riunioni di redazioni ridotte a liturgia esecutiva e delle assemblea ridotte a farsa senza procedure? Oppure con l’elenco dei prepensionamenti accettati senza che nessuno ci chiedesse di continuare a collaborare e anzi nella generale soddisfazione di chi restava padrone del campo, con le cause per sottoutilizzazione non fatte per pietà, con un plauso ai comitati di redazione solerti nel tutelare solo chi restava e non chi accettava di farsi da parte (a proposito, dove sono i nostri Tfr?)? O con l’ancor meno edificante mappatura affettiva, o meglio anaffettiva, degli ultimi anni di vita in Via Bargoni?
Noi preferiamo tacere, per tutelare l’oggetto perduto dalla distruttività che chi dice di averlo salvato non riesce evidentemente a contenere. Ma non sopporteremo a lungo che la storia del manifesto resti consegnata alla favola melensa di un romanzo familiare che ne fanno i giornali mainstream o alla retorica ipocrita, nientedimeno che “rivoluzionaria”, di chi ha usato e usa ogni mezzo per autolegittimarsi come unico erede di quello stesso romanzo. La convinzione, l’intelligenza, le energie, la passione e le professionalità spese da tanti di noi – Rossana per prima e non solo Rossana – per la vita del giornale domandano perentoriamente riconoscimento, riconoscenza e rispetto.
Non è chiaro peraltro quale sia il guadagno politico, o culturale, di questa interminabile e persecutoria contesa autocentrata e autoreferenziale. Se è vero, ed è vero, che il manifesto è sempre stato un pezzo, un’avanguardia, un riflesso o anche solo un sintomo della sinistra di questo paese, più utile sarebbe porsi ruvidamente qualche domanda. La prima: l’ultima crisi e l’ultima separazione del manifesto si sono consumate nel sostanziale silenzio e nel disinteresse di una comunità politica e culturale che per decenni ha nutrito e si è nutrita del giornale: come fosse un talk show da ascoltare distrattamente più che la vicenda di un “noi” collettivo cui partecipare direttamente ed effettivamente. La contabilità dei collaboratori che continuano, legittimamente e meritoriamente, a postare i loro contributi o dei lettori che continuano, altrettanto legittimamente e meritoriamente, a leggere il “loro” giornale, non può fare velo alla constatazione e all’analisi di questo cambiamento, che è evidente a chiunque abbia fatto non soltanto “l’ultima”, ma le molte e continue battaglie per la sopravvivenza del manifesto nel corso di quarant’anni. E che non era l’ultima delle ragioni che richiedevano di portare avanti, con il risanamento dell’azienda, quel rilancio politico-culturale della testata ritenuto superfluo dalla “newcoop”.
Seconda domanda. Il tracollo della sinistra italiana cui abbiamo assistito nei due mesi successivi alle elezioni politiche si è manifestato con una costellazione sintomatica assai simile a quella che abbiamo vissuto nella crisi e separazione del manifesto: un misto di confusione culturale, guerriglia generazionale, incapacità di sedimentazione genealogica, “rottamazione” ovvero godimento nell’eliminazione ad personam delle tracce della propria storia. Dice qualcosa questa singolare similitudine? L’attuale direttora sostiene, e in questo ha ragione, che chi lavora oggi a Via Bargoni è una sinistra, anche se diversa e lontana da quella novecentesca. Si spera che della (migliore) sinistra erediti un po’ di spirito critico e autocritico e la capacità di guardare dentro le proprie contraddizioni, questa ad esempio: che può accadere, è accaduto in Via Bargoni, che si predichi la causa dei beni comuni praticando al contempo una guerra selvaggia per la proprietà e l’appropriazione di un bene comune, quale il manifesto è stato e avrebbe dovuto restare. Senza guardarsi nello specchio di questa contraddizione quella di Via Bargoni sarà sì una sinistra, erede però di quella scissione fra enunciati e pratiche che da sempre, della sinistra, è la peggior malattia.
Questo post è stato pubblicato l’11 giugno 2013 sul blog di Ida Dominijanni