Andreotti: parabola della politica italiana attraverso le storie nere della Repubblica

10 Maggio 2013 /

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di Pasquale Cuomo, Università di Pisa
Ho aspettato un po’ prima di scrivere sulla morte di Andreotti, ascoltando la lettura degli articoli imbarazzati e laudatori su di lui, come di quelli critici ma distaccati. Scoperto da De Gasperi mentre preparava la tesi di laurea sulla marina pontificia, il giovane dirigente della Fuci ha ricoperto quasi ininterrottamente incarichi di governo dal 1946 al 1992. È stato il sottosegretario di De Gasperi con delega alla censura cinematografica scagliandosi contro il neorealismo perché i “panni sporchi vanno lavati in casa”. Frase ripresa per criticare il Divo da parte di un’elegante signora che vanta come merito quello di essere la compagna di un fascinoso industriale-finanziere che è riuscito a semi-distruggere l’azienda dell’ex suocero.
Andreotti ha sempre rappresentato il sacramento del potere con quell’atteggiamento curiale e cinico che ricordava la Roma papalina e le sue frequentazioni vaticane. Filo atlantico da sempre, ha strizzato l’occhio più volte alla destra fascista nel suo collegio elettorale (il frusinate) e a Roma. Da ministro della difesa per sei anni ha plasmato le forze armate negli anni sessanta e poi ha fondato la sua corrente basandola su due pilastri: il Lazio e la Sicilia. Per questo motivo ha sempre avuto ottimi rapporti con i palazzinari e con ambienti mafiosi.
A fare da contorno c’erano poi alcuni giovani politici campani, calabresi e anche lombardi. Per questo motivo non ha mai ambito a diventare il segretario della Dc ma ad essere l’ago della bilancia e scalare il potere ministeriale. Ha rappresentato l’essenza più alta della democristianicità: il potere per il potere, il rapporto con la chiesa, il cinismo, l’affarismo mai esibito, la cattiveria condita di sapidità e una certa civetteria. È stato il grande difensore di Sindona, addirittura appellandolo “salvatore della lira”, mentre il banchiere siciliano era intento in pericolose e fallimentari speculazioni valutarie.

I primi suoi cinque governi, negli anni ’70, furono caratterizzati da una “debolezza” con la mafia, dall’uso allegro della finanza statale, dalla difesa di Sindona, dall’appoggio alla Sir di Nino Rovelli contro la Montedison di Cefis e il conseguente affossamento della chimica italiana. Ha sempre avuto rapporti obliqui con i servizi segreti e trame nere. Si parlava di lui come ispiratore del golpe Borghese del 1970 ed è stato uno dei punti di riferimento di Giannettini (Piazza Fontana).
Durante gli anni Settanta divenne famoso per le frequentazioni pubbliche con i cugini Caltagirone, abili protagonisti di appalti pubblici e fallimenti e per le accuse di un personaggio oscuro come Mino Pecorelli. Ha diretto l’attacco contro la Banca d’Italia, colpevole di perseguire Sindona, nel completo silenzio anche dei mezzi di comunicazione del Pci (erano gli anni del Compromesso storico). Le foto di Baffi e Sarcinelli arrestati fecero il giro del mondo, come il rumoroso silenzio sull’assassinio di Giorgio Ambrosoli da parte della mafia italo-americana su mandato di Sindona. La Banca d’Italia riuscì a trovare in Ciampi una risposta interna all’attacco andreottiano che aveva paracadutato in via Nazionale Lamberto Dini. Su queste vicende aleggiava la nebbia fitta dell’affarismo e della loggia P2 che allungava i suoi tentacoli sull’establishment italiano.
Sono proprio gli anni ’70-’80 a dare più spazio alla civetteria andreottiana: le frequentazioni televisive, l’impegno per la Roma di Dino Viola, l’ippodromo, i libri e le battute. I notisti politici oramai convertiti al dogma de “il dietro le quinte”, “il buco della serratura” cadenzavano la vita politica del paese sugli aneddoti andreottiani: l’insonnia, la scrittura del suo diario, la barba mattutina tagliata dal barbiere sardo dalla mano incerta dopo una sconfitta del Cagliari, la messa alle 7 di mattina e poi la riunione in San Lorenzo in Lucina con i suoi delfini. Il sadico piacere di vederli azzannare tra di loro. La stampa non faceva altro che esaltare, nel bene e nel male, la figura della furbizia andreottiana, oggetto di ammirazione smisurata da parte di un’opinione pubblica tradizionalmente amorale e plebea.
In questo periodo il suo uomo di fiducia era Franco Evangelisti (Ah Fra’, che te serve!), sottosegretario alla Presidenza del consiglio con Andreotti, celebre per le sue comparsate in tv nel circo di Biscardi e acceso romanista. Gravemente ammalato nel 1993, decise di attaccare il Divo Giulio, violando il segreto e tradendo il suo vecchio punto di riferimento.
Gli anni ’80 sono stati quelli di Andreotti Ministro degli esteri, della politica filo Usa, dell’impegno in Europa in collaborazione con Kohl, nel tentativo di “vendicare” l’isolamento degli anni Settanta quando veniva messo ai margini nei summit internazionali a causa della difficile situazione politico-economica dell’Italia. Ma anche gli anni della continuazione della politica filo araba e mediterranea. Durante la crisi del governo Craxi dopo lo scontro muscolare con Reagan, dimostrò l’appoggio al leader socialista con un gesto semplice ed obliquo, un classico della simbologia democristiana: riempì d’acqua il bicchiere di Craxi mentre questi stava pronunciando il suo discorso. Tanto bastò alle truppe democristiane per capire da che parte stare.
Gli anni ’80 sono anche caratterizzati dalla morte di Sindona nel carcere di Voghera per un caffè avvelenato e per il 27esimo rifiuto della Camera di dar luogo a procedere contro Andreotti, con la complice astensione del Pci. Nel 1989 tornò in sella grazie all’accordo del camper (Caf) e furono gli anni del Tac (Tiriamo a campà), di Gava al ministero dell’interno (la cura omeopatica contro la mafia) ma anche di un grande attivismo andreottiano: il controllo su Roma grazie a Sbardella, l’affarismo bancario (la privatizzazione del Banco di Roma e il lancio del ragionier Geronzi), la contiguità sempre maggiore con CL, l’imposizione di Ciarrapico come arbitro nel lodo Mondadori, la lotta contro alcuni magistrati scomodi, il controllo dell’Iri. Tutto sembrava volgere verso la possibile elezione al Quirinale a 73 anni (con completamento della sua vita pubblica ad 80 anni), ma l’assassinio di Salvo Lima ne fermò la corsa, e rappresentò la rottura di antichi rapporti e mediazioni con la mafia. Ai funerali di Lima, il suo pallore divenne più eloquente di mille parole.
Gli anni più recenti sono noti, i processi e le assoluzioni e i reati caduti in prescrizioni (l’associazione esterna alla mafia fino al 1982), la presenza in televisione, l’accettazione di essere candidato dalla destra alla presidenza del Senato nel 2006 contro Franco Marini, lo spettacolo antico e indecente delle truppe mastellate che alzavano la posta e il suo sguardo freddo e sordido. Infine il film di Sorrentino, che molto lo disturbò, e il progressivo incedere della malattia. In questi venti anni però il divo Giulio ha avuto un erede, seppure di caratura inferiore, Gianni Letta, andreottiano di ferro ed ex direttore de Il Tempo.
Ha interpretato perfettamente il ruolo del (sotto)segretario di Berlusconi con grande riserbo e abilità. Di fatto ha diretto il governo negli ultimi anni con disinvoltura etica, relativismo morale e ambiguità. Non ha disdegnato contiguità con il mondo degli affari: costruttori edili, beni culturali (si pensi alle inchieste di Report) ed è stato affetto da una leziosità simile: le frequentazioni teatrali (mentre Tremonti tagliava i finanziamenti alla cultura), la privata affabilità con il mondo del giornalismo e il gusto per le auto di lusso (la Maserati).
Un degno successore, chi sarà il prossimo?

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