Il neoministro dell'Integrazione: la dottoressa congolese d'adozione modenese

2 Maggio 2013 /

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Cécile Kashetu Kyenge - Foto Corriere Immigrazione
Cécile Kashetu Kyenge - Foto Corriere Immigrazione
Un ritratto di Cécile Kashetu Kyenge (datato 2008) firmato dal direttore di Corriere Immigrazione e tratto dal libro Africa qui. Le storie che non ci raccontano (Edizioni dell’Arco).
di Stefania Ragusa
Avevo ascoltato un suo intervento, qualche anno fa, a un convegno sulle donne africane. Cécile Kashetu Kyenge aveva parlato di salute, prevenzione e impegno sociale. Quando ho iniziato a lavorare a questo libro ho pensato che avrei dovuto ritrovarla. Mi sono procurata il suo indirizzo email e le ho scritto. Qualche giorno dopo, veniva a prendermi alla stazione di Modena, con la sua Seicento, la tipica auto di una mamma che lavora, piena di briciole e sacchetti. Il sedile posteriore era coperto da un pagne in wax [1], sul quale campeggiava il volto di suo fratello Ghislain Dyash Kyenge, diventato parlamentare da poche settimane.
Anche se a molti chilometri di distanza, Cécile aveva seguito attivamente la consultazione elettorale. E sul futuro del suo Paese si sentiva moderatamente ottimista. L’incontro si è svolto a casa sua: una villetta appena fuori città dove vive col marito, ingegnere italiano e le due figlie. Abbiamo chiacchierato, bevuto tè e mangiato panettone. Forse me ne sono andata troppo presto, tanto che il giorno dopo ci siamo risentite e ci siamo dette che sarebbe stato opportuno rivedersi ancora.
Cécile Kashetu Kyenge ha 43 anni ed è nata a Lubumbashi, nel Katanga, una regione della Repubblica Democratica del Congo, l’ex Zaire. Fa il medico e vive in Italia dal 1983. Trasferirsi qui non era nei suoi programmi. È successo, per caso e per destino. Agli inizi degli anni ’80, Cécile aveva appena finito la scuola superiore. Ciò che desiderava era semplicemente restare in Congo e studiare medicina. Ma questo progetto, in realtà, non era semplice. L’istruzione era gratuita, nell’allora Zaire, ma cosa uno dovesse studiare, dove e come, veniva stabilito dall’alto.

Succedeva in molti altri Paesi dell’Africa post coloniale. La commissione esaminatrice la dirottò su farmacia. Per un anno Cécile rimase a Kinshasa, studentessa di farmacia e frequentatrice in incognito dei corsi di medicina. Si sentiva in prestito, ma cercava ugualmente di impegnarsi perché sapeva che, se avesse sostenuto almeno un esame, la richiesta per un’eventuale cambio di facoltà avrebbe avuto più chanche di essere accettata. «L’università era in uno stato di avanzata decomposizione», ricorda. «Dividevo con altre quattro ragazze una stanza minuscola e sporca e alla mensa non c’era cibo. In pochi mesi arrivai a pesare 42 chili».
Il padre venne a sapere, attraverso il vescovo, che l’Università Cattolica di Roma stava per mettere a disposizione tre borse di studio per altrettanti studenti congolesi meritevoli. Cécile avrebbe potuto essere tra quelli. Lei valuta la situazione: il passaggio a medicina non è sicuro, le infrastrutture fatiscenti dell’Università di Kinshasa e i servizi per gli studenti inesistenti, invece, sono una realtà. Lasciare il Congo le dispiace profondamente, ma la prospettiva di passare gli anni che sarebbero venuti in quelle condizioni non è allettante. Accetta la borsa e parte.
Era stato il vescovo in persona ad accordarsi con il rettore per le borse. Ma l’accordo non era stato ancora scritto. Al momento della partenza di Cécile si basava solo sulla credibilità degli alti personaggi coinvolti. Sfortuna vuole che il rettore venga colpito da un attacco di cuore e muoia poco prima dell’atterreggio dell’aereo, senza aver lasciato nulla di scritto e definito a proposito degli studenti congolesi. All’Università Cattolica nessuno sa cosa fare del terzetto. Per fortuna, il vescovo aveva dato a uno dei ragazzi una lettera, indirizzata a un sacerdote di sua conoscenza, un certo padre Becker, che risiedeva in un istituto religioso vicino al Circo Massimo. Era stata una precauzione.
Se qualcosa fosse andata storta avrebbero potuto rivolgersi a lui. Erano tempi assai diversi da quelli attuali. Non c’erano le mail. Parlarsi al telefono, da un continente all’altro, era difficile e costosissimo. I ragazzi, con i bagagli al seguito, vanno a cercare padre Becker. Le informazioni del vescovo sono sbagliate. Becker non vive nel posto indicato. In compenso si trova lì un sacerdote ungherese dal nome quasi uguale, Beckes. Il portinaio non si fa mettere in crisi da una consonante di differenza: affida a lui lettera e congolesi.
Beckes prende a cuore la vicenda. Il problema che si pone immediatamente è che, in ogni caso, a quel punto il giorno utile per fare l’esame d’ammissione è trascorso. Per bene che vada ci sarà da aspettare un altro anno. Cécile e i compagni devono decidere se fare dietrofront e tornare a Kinshasa o fermarsi in attesa. Si fermano. Beckes si attiva per trovare loro una sistemazione temporanea. I primi tempi passano tra un convento e l’altro: una settimana è un istituto a dare ospitalità, quella successiva è un altro. «In quel periodo mi hanno proposto di diventare suora. Se avessi accettato non pochi problemi logistici sarebbero stati risolti.
Ma mi sembrava eccessivo diventare suora per assicurarmi un tetto… Padre Beckes mi mise in contatto con Elisabetta Tarare, medico dello Zimbabwe. Grazie a lei conobbi la direttrice del gruppo delle missionarie laiche, Adele Pignatelli, che a sua volta mi aiutò a trovare una sistemazione a Modena, dove c’era, appunto, un collegio di missionarie laiche. Adele, che è morta dieci anni fa, divenne un punto fondamentale di riferimento. Nei momenti di difficoltà, ho sempre trovato la sua porta aperta. A Modena, come uditrice, ho cominciato a frequentare l’università. E, naturalmente, a studiare italiano.
A un anno esatto di distanza dal mio arrivo, sono tornata a Roma per sostenere l’esame d’ammissione. Ce l’ho fatta. La borsa di studio, però, nel frattempo, si era volatilizzata e questo significava che avrei dovuto lavorare per pagarmi gli studi. Le cose cominciavano comunque ad andare meglio. Ai miei famigliari, fino a quel momento, non avevo raccontato nulla delle mie disavventure. Loro pensavano che tutto fosse filato liscio come l’olio, dal primo istante».
Cécile comincia a fare un mestiere che, in buona sostanza, corrisponde a quello ormai noto e diffuso di badante. Allora, però, il termine non esisteva ancora. In quel periodo, una signora di Milano, Marisa Scolari, venuta a conoscenza della sua storia, decide di darle una mano. Ogni mese, le fa arrivare una somma che le consente di lavorare con meno affanno e concentrarsi nello studio. «Ci sono stati tanti imprevisti nella mia storia e una buona dose di sfortuna, ma ho incontrato anche tante persone pronte ad aiutarmi. Come la signora Scolari. Il mio rammarico è che sia morta prima che io la potessi conoscere e ringraziare personalmente».
Cécile è di etnia bakunda, un gruppo che proviene dal nord Katanga e dalla Tanzania. In tempi antichissimi, un gruppo di bakunda si stabilì ai piedi del Grande Monte Kundelungu e fondò Kienge, il villaggio dove è nata e cresciuta Cécile. Il primo capo tribù, Kienge, era una donna. L’organizzazione di questa etnia, inizialmente, era di carattere matriarcale e tale rimase fino agli anni ’50. La famiglia di Cécile è numerosa e facoltosa. Il padre è l’attuale capotribù di Kienge, ha avuto quattro mogli e trentasette figli. È riuscito a farli studiare tutti. «Io volevo fare il medico. L’ho sempre desiderato.
Forse è stata una reazione a una cosa che mi è successa quando ero piccolissima e di cui, ovviamente non ho memoria, ma che mi è stata raccontata mille volte. Avevo 2 mesi, mia madre si è avvicinata al mio lettino e ha visto che non respiravo. Mi ha portato di corsa in ospedale e lì le hanno detto che ero morta. Mi hanno portato all’obitorio. Ma il medico che l’aveva fatta partorire non era convinto. Diceva che ero nata perfettamente sana, trovava incomprensibile questa morte improvvisa. Mi sottopose a una serie di trattamenti e mi ripresi. Sono viva solo grazie all’intuito e all’ostinazione di un medico. Il problema della morte apparente in Africa è ricorrente. Dipende dalla mancanza di mezzi diagnostici e dalla fretta di seppellire, per evitare che il corpo vada in decomposizione a causa del caldo».
Da bambina Cécile aveva vissuto in Belgio per un lungo periodo, dai 4 ai 6 anni. Ma era troppo piccola per scoprire cosa ci fosse al di là della sua quotidianità famigliare. Così la sua idea dell’Europa aveva finito col coincidere con quella della maggior parte degli africani: un paradiso dove senza fatica la gente aveva a disposizione il superfluo e il necessario. Ma, appena sbarcata in aeroporto, questa immagine si incrina. C’erano dei bianchi che pulivano i gabinetti, portavano i bagagli, facevano lavori umili. «Che scherzo è questo?», si chiede lei. «Ma cosa ci insegnano in Africa?».
Appropriarsi della nuova cultura si rivela un impegno bello e stimolante. «Era il 1983, gli stranieri erano pochissimi. Io mi ero procurata una piccola radio e ascoltavo tutte le canzoni, in modo da potere avere argomenti di conversazione. Nel giro di un anno e mezzo conoscevo tutti i cantanti italiani. Cercavo di mantenere uno sguardo positivo sulle cose e sulle persone. Anche e soprattutto se qualcuno mi rifiutava». Cécile diventa molto amica di una compagna di università e frequenta assiduamente la sua famiglia.
Questo l’aiuta a comprendere buona parte dei nostri meccanismi relazionali. Sta bene complessivamente, ma le manca moltissimo la famiglia e le mancano i suoni, i colori, i sapori del suo paese. «Allora non era facile trovare gli ingredienti per cucinare. Non c’erano negozi etnici». Lavora, studia, ha voti altissimi e continua a sognare il momento del rientro. Fa la tesi in pediatria, ma poi decide di specializzarsi in oculistica perché in Congo, in quegli anni, non c’erano oculisti e la sua intenzione era esercitare lì la professione. Cosa le fa cambiare idea? In primis il fidanzato italiano, l’uomo che sarebbe diventato suo marito. E, anche, l’aggravarsi della situazione politica a Kinshasa. Con la caduta del muro di Berlino, nel 1989, il potere di Joseph Desiré Mobutu si era messo pericolosamente a traballare e il Paese aveva iniziato a scivolare in un’anarchia senza rimedio. Chi, per le ragioni più svariate, si trovava lontano aveva ottime ragioni per rimanerci.
Il primo incarico, come oculista, è del 1994. Negli anni successivi Cécile fa molte sostituzioni e, finalmente, nel 1997, viene assunta nel reparto di Oculistica a Reggio Emilia. Appena le è possibile comincia ad andare in Congo come volontaria. Fonda l’associazione Dawa (che vuol dire benessere ma anche medicina e magia in swhaili). Dawa punta a realizzare iniziative interculturali in Italia e interventi sanitari e sociali in Africa in cooperazione con le istituzioni locali. In particolare, ha a cuore la prevenzione e la cura delle malattie degli occhi. Il primo primario di Cécile non si fa coinvolgere. Ma il secondo sì. E l’aiuta concretamente a organizzare delle missioni annuali, che hanno, tra gli altri, anche lo scopo di formare personale locale. Punti di riferimento sono la città di Lugumbashi e l’università.
Il padre di Cécile, come capovillaggio, può dare un supporto logistico rilevante. «È fondamentale avere un contatto con le comunità locali. Molte buone intenzioni naufragano per l’assenza di questo contatto». Dawa si autofinanzia e negli anni ha portato avanti la campagna “adottiamo un professore”, dotato il prete di una moto per consentirgli di muoversi più agevolmente nei villaggi, organizzato un centro per i bambini di strada, aperto un presidio per le emergenze e la prevenzione di patologie prevalenti nella zona (diabete, tumori della prostata, malaria, emergenza materno-infantile).
A oggi, fanno parte dell’associazione una trentina di persone, congolesi e italiane. A Cécile piacerebbe molto coinvolgere nelle iniziative medici con altre specializzazioni e, soprattutto, avviare una collaborazione stabile con i guaritori tradizionali. «Bisogna trovare però un sistema per garantire queste persone, per evitare che le multinazionali dei farmaci o gli avventurieri possano sottrarre il loro sapere e ricavarne profitti. Questo è il problema grosso. I guaritori lo sanno ed è per questo che sono molto reticenti a collaborare».
Per gli italiani non è facile rapportarsi a un medico nero, per di più donna. A Cécile è successo mille volte di essere scambiata per l’infermiera mentre l’infermiere veniva chiamato pomposamente dottore. «È una cosa che fa sorridere e che fa riflettere. Io non mi arrabbio, ma questa cosa mi dice che c’è ancora tanta strada da fare. Molta, comunque, è già stata percorsa». Non è stato facile, per lei, abituarsi ad alcuni aspetti della professione medica radicalmente estranei alla cultura congolese. «Mi capita spesso, per esempio, di dovermi occupare dell’espianto di organi.
Nella mia cultura l’intervento sul corpo di un morto rappresenta una grave mancanza di rispetto, la violazione di un tabù. Solo poche persone, dotate di particolari poteri, sono titolate a farlo. Io lo faccio lo stesso perché riconosco che l’obiettivo è buono, ma mi costa una fatica che, ne sono certa, i bianchi non immaginano». In Africa il rapporto con la morte è diverso da quello che caratterizza l’Occidente. Non c’è rimozione, rifiuto, ma un enorme rispetto. Nessuno direbbe mai, come si sente qui in Italia, ” la morte fa schifo”. Sarebbe illogico, contraddittorio. La morte è considerata un fatto naturale, fisiologico, il momento in cui ci si ricongiunge con gli antenati e gli spiriti.
«Voglio citare un episodio di qualche anno fa. C’era stato un incidente ed erano morti dei ragazzi congolesi che vivevano in Italia. Io stavo andando alla cerimonia per loro, una vera e propria festa. Noi festeggiamo quando la gente muore. Solo chi è stato molto, ma proprio molto cattivo non viene festeggiato. Io ho detto così: sto andando alla festa del mio amico che è morto. La gente non credeva alle proprie orecchie».
Ci sono molti aspetti della nostra cultura che lasciano Cécile un po’ perplessa, anche se ormai li capisce bene e non li mette in discussione. «Mi colpisce molto la rivalità che c’è tra fratelli e cugini. Anche da noi talvolta si verifica, ma è qualcosa di inaccettabile. Mi colpisce la relazione quasi di possesso che caratterizza i rapporti famigliari. In Africa i bambini sono di tutti, nel bene e nel male. E le donne di una certa età vengono chiamate da tutti mamma o nonna, indipendentemente dal fatto che abbiano figli o nipoti. Qui, la prima volta che mi sono rivolta a una signora più grande chiamandola mamma, mi è stato subito spiegato che non era opportuno farlo. Che questa cosa rappresentava come un’invasione di campo.
La mia vera integrazione c’è stata quando ho cominciato a vivere con mio marito. Allora mi sono resa conto di tante differenze che prima mi sfuggivano. Per esempio del meccanismo degli sguardi. Qui bisogna guardare negli occhi una persona quando le si parla. Per noi questa è una mancanza di rispetto». Cécile oggi si considera all’incrocio tra due mondi: un privilegio, che spesso però ha avuto costi elevati.
«Mi ricordo una volta che ero andata in gita da sola alle Victoria Falls (era un periodo in cui, non potendo lavorare in Italia perché non iscritta all’Ordine dei medici in quanto straniera, facevo la volontaria in Zimbabwe), ho incontrato un gruppo di turisti italiani. Ho sentito che parlavano italiano e li ho subito salutati con gioia, come succede tra connazionali che si incontrano all’estero. Ma loro mi hanno guardata stupiti e si sono chiesti ad alta voce: ma perché questa negra parla italiano? Può sembrare una sciocchezza, un episodio quasi buffo. Io però ne ho sofferto. No, non è facile essere all’incrocio tra due mondi». Le sue bambine crescono, al momento, poco congolesi e molto italiane. Parlano francese, non swhaili (Cécile, invece, parla perfettamente italiano, francese, inglese, swahili, lingala, bemba e tsiluba). «La priorità, per me, era che si integrassero prima bene qui, per avere una vita serena».
Cécile è anche molto attiva in politica. È consigliera di circoscrizione nel suo comune e ha un incarico con i ds di Modena per la cooperazione internazionale. Ha un’agenda pienissima ed è chiamata a partecipare in continuazione a incontri e dibattiti. «Non avrei accettato di occuparmi solo di immigrati, come spesso viene chiesto agli stranieri. Lo avrei ritenuto squalificante. La cooperazione è un ambito molto ampio». Una delle priorità, secondo lei, dovrebbe essere quella di aiutare concretamente i giovani stranieri che vengono a studiare in Europa: nessuno ne parla, ma la verità è che questi ragazzi oggi vengono investiti da un doppio rifiuto.
In Italia c’è una concorrenza fortissima e sappiamo tutti quanto sia bloccato il mercato del lavoro, in Africa, dove loro tornano convinti che tutte le porte si apriranno davanti ai diplomi e ai master europei, in realtà, non li vuole nessuno: vengono visti come “traditori”, hanno una preparazione molto teorica, scarsi contatti con la realtà locale e scontano la competizione con i molti laureati in loco che ambiscono agli stessi posti. «La cooperazione internazionale dovrebbe farsi carico di questo problema oltre che vigilare sulla moralità e l’idoneità dei cooperanti, che troppo spesso scambiano i paesi cosiddetti in via di sviluppo con terre di nessuno dove possono fare ciò che vogliono, col massimo lusso e la minima spesa».
È molto importante, secondo lei, che gli stranieri partecipino alla vita pubblica anche a livello politico e amministrativo. Non è vero, dice, che i tempi non sono maturi. «Ho deciso di fare politica perché lo considero un passaggio essenziale per l’integrazione e la costruzione di una società multietnica e perché, ci piaccia o meno, oggi dalla politica occidentale dipendono una serie di cose che riguardano le sorti del mondo intero». Nella sua agenda c’è la promozione (in collaborazione con la ministra delle Pari Opportunità nigerina) di una campagna per estendere le ratifiche da parte dei paesi africani al protocollo di Maputo, il documento sui diritti delle donne sottoscritto nel 2003 dai 53 capi di stato dell’Unione Africana e che ha, tra i suoi punti essenziali, lo stigma, senza appello, delle mutilazioni.
Si è battuta strenuamente affinché la regione Emilia Romagna approvasse una mozione in cui si impegnava ad aiutare il Niger in tutte le iniziative che promuovono il protocollo di Maputo. Altri temi caldi per Cécile sono i matrimoni precoci: «una delle principali cause di non studio tra le donne africane» e la tutela dell’ambiente, in particolare la salvaguardia del parco nazionale di Kundelungu, dove si trova il suo amatissimo villaggio.
Nota
[1] Pagne è il drappo di stoffa che le donne africane usano per coprirsi, legarsi i bambini dietro la schiena e per molte altre cose. Wax è un tessuto africano multicolore ottenuto con la tecnica detta “stampa a cera con riserve”.
Questo articolo è stato pubblicato sul Corriere Immigrazione il 28 aprile 2013.

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