di Marco Revelli
Non è giorno di festa, questo Primo Maggio 2013. Giorno di mobilitazione, questo sì. E di bilancio. Occasione d’incontro. E di riflessione. Ma di festa no. Per la brutale ragione che non c’è nulla da festeggiare. Mai come oggi, per lo meno nell’ultimo mezzo secolo, il lavoro è stato umiliato e offeso. Mai è stato così ignorato, nelle sue esigenze materiali e nelle sue ragioni ideali, nella società e nelle istituzioni. Nel mercato del lavoro e sui posti di lavoro.
Il tasso di disoccupazione – lo rivela l’Istat – è arrivato a sfiorare l’11%, quasi il doppio rispetto alla fine degli anni 70, quando incominciò la guerra dei potenti contro il lavoro. Ma il dato è sottostimato, perché se si tenesse conto anche della massa sterminata di ore di Cassa integrazione e al suo equivalente in posti di lavoro, dovremmo aggiungervi altri due o tre punti percentuali. E in alcune aree del paese arriva a sfiorare addirittura il 20 per cento.
Né si può ignorare che c’è un’intera generazione costretta a restare fuori dalla porta del mondo del lavoro. Un’immensa coda virtuale di centinaia di migliaia di ragazzi e ragazze, davanti a virtuali uffici di collocamento, che non si vede, che non provoca lo shock del 1929 e non ne evoca l’incubo solo perché se ne rimangono a casa, a spedire curricula inutili, ma ci sono, e non riescono a immaginare un proprio futuro: è disoccupato il 35,7% dei giovani tra i 15 e i 24 anni, che nel Meridione diventa il 46,9%, quasi la metà di quelli che si attivano sul mercato del lavoro.
A cui va aggiunta una buona parte dei quasi tre milioni di «scoraggiati», che non figurano nella statistica della disoccupazione perché non studiano e non cercano neppure un lavoro. È lo scenario di una catastrofe sociale, ma anche culturale e antropologica – perché un paese non può perdersi un’intera generazione, buttata fuori dal tempo per assenza di futuro -, che solo l’inguaribile cecità della politica non permette di porre al primo posto dell’agenda nazionale.
D’altra parte, chi il lavoro ce l’ha – e appare, paradossalmente, come un «privilegiato» per questa sola ragione -, ha dovuto vedere, in questi anni, e ora in modo sempre più veloce, assottigliarsi sempre più sia la propria retribuzione che i propri diritti, in un contesto che sembra non più vivere come tale lo scandalo del lavoro servile. Anzi, teorizzarlo come «normale». Di più: necessario, se si vuole rimanere «dentro i parametri» europei.
Non importa che dalle medie europee siamo fuori da tempo, per difetto, non per eccesso. Per livello dei salari, tra i più bassi nella graduatoria Ocse; per durata degli orari, superiori a quelli di Francia e Germania; per grado di flessibilità, con una dimensione della precarietà non tutelata abnorme; per estensione dell’area maledetta del lavoro nero. C’è uno spread non rilevato – lo spread sociale, che misura il dislivello nella dignità del lavoro -, il quale è ben più elevato di quello che misura quotidianamente il differenziale finanziario.
E ci dice che si è aperto un abisso tra le promesse dello «sviluppo» e la condizione reale del capitalismo italiano. Tra gli standard minimi di una civiltà che continua a vivere del lavoro e la condizione reale degli uomini e delle donne che continuano a costituirne il motore. Vivere questo Primo Maggio in modo adeguato
al tempo in cui siamo, significa non sottrarsi a questo bilancio. Guardare con realismo la condizione attuale nei suoi dati materiali, ma anche nei suoi aspetti politici e organizzativi, senza nasconderci gli errori, le cadute, i fallimenti.
Se il lavoro ha perso quella che Luciano Gallino ha definito «la lotta di classe dopo la lotta di classe» – l’offensiva che il capitale ha scatenato, fin dagli ultimi decenni del secolo scorso, contro il lavoro, per riassorbirne le conquiste, piegarne la resistenza, assottigliarne i diritti, asservirne i corpi e le menti – una ragione c’è, che ci impone di essere guardata.
Una ragione che certo ha a che fare con le dinamiche oggettive dei mercati e della tecnologia, ma che affonda le proprie radici anche in errori soggettivi. In scelte strategiche sbagliate. In compromessi al ribasso nefasti. In una forma di resa mentale di chi ha guidato le organizzazioni dei lavoratori in questi anni. In una disponibilità alla resa che è andata al di là del reale rapporto di forza, e ha accentuato la caduta.
Sulle ragioni di quegli errori il dibattito è tuttora aperto. Ed è legittima ogni argomentazione. Ma sulla ripetizione di quegli errori, non ci dev’essere dubbio. Se errare è umano, perseverare sarebbe davvero diabolico, ora che si è vicini a toccare il fondo: nel momento in cui l’intrecciarsi di una crisi economica senza precedenti nell’ultimo ottantennio e di una crisi politica che si annuncia tout court come «crisi di sistema», mette a serio rischio la sopravvivenza della stessa democrazia.
Per questo il riscatto del lavoro è oggi direttamente parte della questione democratica. La tutela del lavoro coincide perfettamente con la difesa della democrazia, come metodo (solo democratizzando il lavoro si garantisce la democrazia) e come fine (solo rafforzando il potere dei lavoratori si difende il sistema democratico). E la tutela del lavoro ha una sola, strategica, forma: la partecipazione dei lavoratori. La loro mobilitazione sul posto di lavoro e nella società (quella partecipazione che vediamo giorno dopo giorno ignorata e scoraggiata).
Non dunque un Primo Maggio di Festa, ma un Primo Maggio di Lotta. E, soprattutto, un 18 maggio in cui dare il segno di una svolta: di una ripresa di parola da parte di un mondo che chi gestisce il «pilota automatico» vorrebbe muto e inerte. Un primo segnale, nel sociale, come condizione per difendersi da ciò che, sconsideratamente, va profilandosi nello spazio imploso della politica.
Se non ora, quando?
Questo articolo è stato pubblicato sul numero del 30 aprile 2013 (pdf, 1,5MB) della rivista iMec – Giornale metalmeccanico