C'era una volta in Transnistria: il racconto nel film "Educazione siberiana"

22 Marzo 2013 /

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Educazione siberianadi Ivan Andreoli
C’è qualcosa di Sergio Leone in Educazione siberiana, l’ultimo lavoro del premio Oscar Gabriele Salvatores. Come nel capolavoro dello scomparso maestro C’era una volta in America, anche qui seguiamo la storia di due ragazzi che attraverso tre spazi temporali, il 1988, il 1995 e il 1998, sviluppano la loro amicizia fino a trovarsi rivali su fronti opposti. Tutto comincia quando l’Unione Sovietica sta ormai concludendo la sua parabola storica. Opportune didascalie ci informano all’inizio del film che il luogo è la Transnistria, regione (separatista) della Moldavia dove Stalin aveva confinato criminali di varie etnie, fra cui diversi siberiani. E sono siberiani Urka, come l’indimenticabile Dersu Uzala raccontato da Kurosawa, Kolimà e Gagarin, poco più che decenni, che vediamo apprendere uno strano codice di comportamento dal nonno del primo, il “criminale onesto” Kuzja.


Siamo a Fiumebasso e i due ragazzini insieme alla loro banda iniziano la propria attività criminale con un furto di stivali da un camion militare. Perché, come insegna il nonno, rubare e anche uccidere poliziotti, militari russi e banchieri è permesso. Però poi si condivide la refurtiva con la comunità di appartenenza e non bisogna tenere il denaro in casa. Tutta una serie di regole strane ma perfettamente conformi ad un’etica criminale dettata non solo dalla tradizione ma direttamente scritta sui corpi: il tatuaggio come graduale creazione e affermazione della propria identità. Poi succede che a Berlino un muro cade e con esso un intero paese e un equilibrio che fino ad allora si credeva irremovibile.
Il passaggio è davvero epocale, cambiano le regole e nelle persone e soprattutto nei giovani subentra lo spaesamento. Dall’ovest arrivano altri modelli, altra criminalità, lo scontro è inevitabile. Ed anche nei due amici maturano posizioni e convincimenti diversi. Kolimà affronta il nuovo con diffidenza, alla luce dei principi ricevuti, Gagarin vuole arricchirsi presto e molto. Entra in scena anche l’amore, col volto e il corpo di Xenia, una ragazza bellissima ma disturbata, fragile; e se la religiosità dei siberiani considera i pazzi dei “voluti da Dio”, ora è il desiderio a dettar legge e a non guardare in faccia a nessuno, neanche ai deboli e ai puri. Kolimà e Gagarin guardano a lei con occhi diversi.
Il racconto giunge al suo giro di boa nella scena forse più bella, poetica ed emblematica del racconto: il volo sul calcinculo è il lancio verso la vita, è la metafora della nuova libertà. Non a caso la musica che l’accompagna è la trascinante Absolute beginners di David Bowie: l’occidente per eccellenza tradotto in musica e parole, un titolo che trasforma immediatamente quei giovani nei principianti assoluti quali realmente sono nella nuova realtà. Amore e possesso si fronteggiano senza compromesso alcuno e i due ragazzi si ritrovano irrimediabilmente uno contro l’altro. Sarà ancora nonno Kuzja a decidere il da farsi e ad affidare a Kolimà il compito di trovare il colpevole dell’abuso di Xenia. La caccia all’uomo lo condurrà ad arruolarsi nell’esercito, in quell’esercito che non aveva mai considerato il suo.
Salvatores compie un indubbio salto di qualità scegliendo un soggetto non solo lontano anche geograficamente dal suo mondo, ma soprattutto lontano dalle commedie che da Turné a Mediterraneo da Sud ad Amnèsia e ad Happy family hanno caratterizzato la sua produzione. Il film non è perfetto, ma il tentativo è encomiabile. Il tema dell’amicizia maschile minata dall’amore, tipico della poetica dell’autore, rivive questa volta con risvolti epici inconsueti.
La prima parte è davvero molto bella, nonostante che i “princìpi” ispiratori di questa strana educazione siberiana siano enunciati nello spazio dei primi minuti con parole precise e sentenziose che rischiano di rendere pleonastiche le immagini successive. Parole, peraltro, annunciate fin dai trailer per cui si arriva alla visione con l’impressione di sapere forse già troppo e con la residua curiosità di vedere solo come è svolto il tema. Invece poi la visione è interessante, diretta con la maestria che al premio Oscar non difetta. Soprattutto quando in scena ci sono i bambini.
Ma riesce anche a dominare e contenere l’istrionico Malkovich, nei panni del nonno, che troneggia spesso, col suo corpo nudo pieno di tatuaggi circondato dal calore dei compagni, nell’afosa atmosfera di una sauna. Eccellente la fotografia di Italo Petriccione, abituale collaboratore del regista e notevole la colonna sonora di Mauro Pagani che si lascia tentare dalle melodie russe per virarle a maestose sonorità più moderne, e regalandoci un vero gioiello nelle note di una canzoncina tradizionale doverosamente sottotitolata.
All’origine del film c’è il romanzo omonimo di Nicolai Lilin che ha riscosso notevole successo e ottenuto ben 14 edizioni in altrettanti paesi. Lo scrittore, cresciuto in Transnistria e ora vivente in Italia, affida al personaggio di Kolimà la sua vicenda autobiografica. Sulla verdicità storica della deportazione staliniana dei siberiani in quelle zone invece gli studiosi nutrono diversi dubbi. Ciò non toglie che romanzo e film abbiano una loro credibilità e un fascino intenso. Anche se la storia non è andata davvero così, il romanzo di formazione (criminale) e la sua traduzione cinematografica sono estremamente interessanti ed attuali.

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