di Maurizio Bergamaschi
Non è forse casuale che i più importanti giornali italiani non abbiano dato notizia della morte del sociologo francese Robert Castel (tranne la felice eccezione del Manifesto che gli ha riservato un’intera pagina giovedì 14 marzo). Riservato e composto, sempre pronto a sottrarsi ai riflettori mediatici, intimamente “antiaccademico”, Robert Castel mostrava nei confronti dei suoi interlocutori una straordinaria capacità di ascolto e disponibilità al confronto.
Al termine dei suoi seminari settimanali all’Ecole des hautes études en sciences sociales (EHESS), lo potevi incontrare nel bistrot accanto dove la discussione con i suoi studenti continuava per ore davanti a una birra. Sebbene non abbia costruito intorno a sé una propria “scuola”, a differenza di altri suoi colleghi francesi, rimane il suo contributo intellettuale alla “storia del presente”. L’esigenza di problematizzare le questioni contemporanee in una prospettiva storica, che caratterizza tutta la sua produzione scientifica, fin dai primi lavori sulla psichiatria e la psicanalisi, è riconoscibile anche nel libro per il quale ha iniziato a lavorare a partire dai primi anni Ottanta e pubblicato nel 1995, “Le metamorfosi della questione sociale”.
Le questioni cruciali che il testo pone possono essere riassunte in una serie di domande: come si è storicamente definita e trasformata la relazione tra lavoro e protezione? Come si costituisce, all’interno della “società salariale”, una solida base di protezioni e diritti, quale principale fondamento della cittadinanza sociale? Secondo quali modalità il lavoro salariato, che ancora agli inizi dell’età moderna viveva una condizione di estrema indigenza e deprivazione, è giunto ad occupare una posizione relativamente stabile e a beneficiare di diritti, sicurezze e riconoscimento sociale?
Questioni oggi non secondarie in quanto incidono, da un lato, sullo statuto dell’individuo e, dall’altro, sulle forme assunte dalla solidarietà e dalla coesione sociale nelle democrazie moderne, caratterizzate da una crescita sempre più accentuata dell’individualismo. Nel quadro storico disegnato da Castel, una posizione centrale è assegnata al lavoro quale fattore di integrazione. Il sociologo francese evidenzia infatti l’esistenza di una forte correlazione tra il posto occupato dall’individuo nella divisione del lavoro e la sua partecipazione ai sistemi di protezione sociale.
Castel ricostruisce quel processo storico che vede la trasformazione del lavoro subordinato da attività indegna e priva di riconoscimento, in età moderna, a supporto privilegiato dell’iscrizione sociale dell’individuo, nel XX secolo. È in particolare dal secondo dopoguerra che il lavoro, nei paesi dell’Europa occidentale, al di là delle forme assunte che si situano tutte in una comune condizione salariale, assicura all’individuo, da un lato, un insieme di protezioni e, dall’altro, la sua integrazione nella società.
Ciò che merita di essere evidenziato è che questo lavoro di ricostruzione dei dispositivi storicamente attivati per favorire l’integrazione delle frange più marginali della popolazione, si colloca in un momento in cui questi stessi strumenti sembrano sempre meno garantire gli effetti che si proponevano di conseguire. È la crisi della società salariale l’oggetto che il sociologo francese intende, in primo luogo, tematizzare. Castel ci invita quindi ad interrogarci innanzitutto sulla natura della “nuova questione sociale”, ovvero sull’indebolimento al contempo delle regolazioni collettive e delle forme di protezione sociale assicurate dalla condizione salariale.