Ancora sulla fortuna delle parole: “eccellente”

13 Marzo 2013 /

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di Maurizio Matteuzzi, Università di Bologna
Nella scala della qualità dei funghi eduli, ho scoperto che “eccellente” si pone al gradino superiore rispetto a “ottimo”. Strano paradosso semantico, perché “ottimo” par non poter incarnare altro che un superlativo assoluto, cioè ciò che per definizione è insuperabile. “Eccellente”, da ex cellere, dove ex ha il significato di “fuori” e l’antiquato e desueto cellere sta per spingere, probabile calco del greco kèllein. Un po’, insomma, come “egregio”, scelto, tirato fuori dal gregge, o l’analogo “esimio”.
Da qui l’appellativo “eccellenza”, che spetta ai più alti dignitari della scala sociale, termine quanto mai positivo malgrado qualcuno abbia guardato in cagnesco il Giusti per pochi scherzucci di dozzina, e non abbia avuto il tempo di leggere i Promessi Sposi.
Certo è cosa buona eccellere, e altrettanto, almeno eticamente, cercare di farlo. Il punto sta tutto nella distinzione tra uso ed abuso. Voglio dire, suona un po’strano leggere di certe Eccellenze che vengono condannate per reati piuttosto squalificanti, come la corruzione o la frode fiscale. Non faccio esempi, naturalmente, ho la fortuna di avere un amico giurista che mi depenna tutto quello che potrebbe costare una querela. Ma, insomma, stride un po’pensare a un PM che possa dire più o meno “Lei Eccellenza è un ladro”; ricorda da vicino l’endiadi meno nobile da bar Sport, “Lei è un esimio testa di … cavolo”.

E questo fa venire in mente un altro aspetto preoccupante. Si può eccellere in tante cose e in tanti modi: negli studi, nella cultura, nello sport, ma anche nel crimine, nel malcostume, nell’imbecillità. E dalla tematica sorge un altro problema ancora: chi decide sull’eccellenza? Ci si deve affidare al sentire dei più, e democraticamente isolare il diverso che dai più è accettato come tale, cioè come “spinto più” in alto? O ci si deve affidare al giudizio dei precedenti eccellenti già conclamati? Ma qui sorge il famoso paradosso del regresso all’infinito: chi ha nominato “eccellenti” gli eccellenti precedenti? Risalendo di passaggio in passaggio, dovremmo trovare, per dirla con Tommaso, un primo eccellente in grado di autoproclamarsi l’Eccellente, cioè causa sui.
C’è un’altra distorsione che vale la pena di considerare. Secondo una certa vulgata, o un certo modo di intendere le cose, l'”eccellenza” funziona esattamente come un titolo nobiliare. Uno diventa eccellente, e dopo è eccellente a vita (o “eccellenza” come vocativo di sottomissione). Il termine diventa pertanto un titolo onorifico, qual era “marchese” dal feudalesimo ai primi del secolo scorso. Se uno è marchese, non può cessare di esserlo; non solo la qualificazione dura tutta la vita, ma diviene addirittura ereditaria: passa al primogenito, e via così per secoli. Viceversa, ragioniamoci un po’. L’eccellenza è per sua natura dinamica. Essa è data in senso comparativo rispetto al “gregge”.
È facile da capire: Facciamo un altro salto al bar Sport, un’altra birra per favore. Maradona era una mezzala eccellente, penso che saremmo tutti d’accordo. Ora eccellente non è più. Anch’io, mi sia consentita l’aneddotica personale, ero un’eccellente ala destra (tra i dilettanti, s’intende): quasi mezzo secolo fa. E mi vengono i sudori freddi se ora dovessi trascinare il mio adipe correndo lungo le fasce. Ma allora è bene convincersi che una certa mentalità feudale è stata definitivamente abbandonata dalla società moderna: tanto rispetto per chi fu eccellente; lo si scriverà anche nel necrologio, e, magari per le eccellenze vere, nei libri di storia. Ma l’eccellenza non è un titolo nobiliare, è la presa d’atto della situazione presente; che, come è ovvio, cambia continuamente. Rendiamo omaggio al Filosofo: panta rei; nello stesso fiume ci immergiamo o non ci immergiamo, siamo o non siamo. Ma non ci bagneremo mai della stessa acqua.
Ora nel mondo accademico si dà per scontata la ricerca dell’eccellenza. La qual cosa, detta così, sembra una tautologia. Ma se poi a determinare il discrimine è chiamata una caterva di criteri puramente quantitativi e burocratici, se si cerca di governare per norme e statistiche ciò che per sua natura a questi parametri sfugge, che cosa avviene? E, per di più, se l’eccellenza viene attribuita a macrostrutture come gli Atenei, che succederà a quel povero Cristo che ha fatto la scoperta del secolo nel suo campo, ma appartiene a un Dipartimento di un Ateneo non eccellente? Avrà mai i finanziamenti per pubblicare la sua scoperta?
E, infine, come monitorare il raggiungimento o la perdita dell’eccellenza, se essa non va intesa come titolo onorifico ma come presa d’atto di una qualità? Davvero abbiamo bisogno di fissare un’eccellenza feudale, per caste, come nel medioevo? Eppure questi paiono essere gli illuminati pareri degli “eccellenti” pensatori berlucongelminiciconfindustriali, economisti di chiara fama, dotati di lauree e master eccellenti (magari fasulli, ma che c’entra?). Qualcuno avrà la pazienza di spiegare loro che il feudalesimo è finito? E poi, e questo è il vero dramma, capiranno, o vorranno capire?
Dicevo prima che si può essere eccellenti nel positivo e nel negativo, nella cultura (ammesso che ancora qualcuno l’accetti come dato positivo) e della stupidità. Aggiungo ora un ulteriore paradosso. Si può essere eccellenti anche nel non-essere. Quanto stanno facendo lorsignori all’università pubblica è un chiaro modo per eccellere nella non eccellenza.

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