Giustizia: sì ai provvedimenti di clemenza, ma poi via alle riforme strutturali

21 Febbraio 2013 /

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Carceri - Foto di Marco Molinaridi Desi Bruno, garante dei diritti delle persone private della libertà Emilia Romagna
Prosegue incessantemente la battaglia contro le condizioni disumane delle carceri italiane. E non potrebbe essere altrimenti. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nella recente sentenza “Torreggiani ed altri contro l’Italia” ha condannato il nostro Paese al risarcimento dei danni morali subiti da sette detenuti italiani per il “trattamento inumano e degradante” delle nostre carceri, lasciandoci un anno di tempo per fronteggiare il problema con provvedimenti strutturali.
In questo contesto, l’amnistia può costituire solo la premessa – e non certo l’esito – di un programma di riforme imprescindibili per l’affermazione dei più elementari diritti dei detenuti. Dal 1975 (anno della sua introduzione), l’Ordinamento Penitenziario è stato ripetutamente “martoriato” da interventi legislativi ispirati alle più diverse esigenze (correzionali, deflattive).
Questa continua esigenza di “aggiustare il tiro” deriva da alcune ragioni strutturali: ancora oggi, si tende a dislocare verso il “basso” (ovvero verso il momento dell’esecuzione penale) la soluzione di problemi che non si riesce (o non si vuole veramente ) risolvere “a monte”.

Questo accade perché, quando si supera qualunque soglia di tollerabilità nel numero di presenze negli istituti, volenti o nolenti qualcuno se ne deve occupare. Se il carcere non regge più, è lo stesso sistema complessivo della giustizia penale che rischia di precipitare: per questo motivo, le esigenze “burocratiche” di governo del carcere vengono ad assumere un’importanza decisiva e il legislatore è chiamato a tamponare l’emergenza.
Ma per affrontare strutturalmente il problema (come ci chiede la Cedu) questo non può bastare. La questione va affrontata alla radice, senza attendere ulteriormente: in primo luogo sostenendo con forza la fin troppo rinviata riforma del codice penale, con un programma ispirato ad un diritto penale minimo, “bloccato” da una riserva di codice e soprattutto con la previsione di un sistema sanzionatorio diverso e maggiormente articolato, che preveda la pena detentiva solo come una delle opzioni possibili (e solo per i reati molto gravi), accanto alle pene pecuniarie, interdittive, prescrittive e l’avvio ai lavori socialmente utili.
L’altro intervento, peraltro comunemente auspicato, riguarda un diverso utilizzo della custodia cautelare in carcere: e, da questo punto di vista, non c’è nulla da inventare perché – per impedire a migliaia di persone di transitare dal carcere per pochissimi giorni – basterebbe farne un uso coerente con la normativa vigente.
Non c’è dubbio: negli ultimi tempi sono stati messi in campo alcuni interventi legislativi condivisibili, come quella particolare tipologia di detenzione domiciliare che consente di scontare l’ultimo anno e mezzo della pena a casa propria o in altra idonea dimora. Altri sono rimasti in sospeso con l’interruzione anticipata della legislatura, come l’istituto della messa alla prova nel processo penale a carico degli adulti.
Ma questi provvedimenti, da soli, non possono bastare. Occorrono riforme di ampia portata per incidere sulle molteplici questioni aperte dalla giustizia e dal carcere in un’ottica che non sia meramente emergenziale. Solo a queste condizioni sarà possibile riattivare quel virtuoso percorso delle misure alternative previsto dalla legge Gozzini del 1986, che – nonostante i continui interventi normativi che tendono a ridurne l’operatività – continuano a sopravvivere nella legge ma che non vengono pienamente applicate nella prassi.
Altre soluzioni che occorre mettere in campo riguardano la riscrittura della normativa sugli stupefacenti e sull’immigrazione, nonché l’abrogazione della legge cd. Ex-Cirielli sulla recidiva.
Si tratta di scelte politiche che richiedono la disponibilità a valutazioni ponderate, lontane da quella logica del legiferare in via di emergenza, che tende sempre ad inasprire le pene e aumentare le figure di reato. È necessaria un’inversione di tendenza radicale, che accolga l’idea di una pena detentiva appannaggio esclusivo di quei comportamenti che ledono beni giuridici di primaria importanza e che annoveri tra le proprie opzioni anche modalità di esecuzione ispirate a finalità riparative e restitutorie nei confronti delle vittime dei reati e della collettività.
Questo articolo è stato pubblicato su Ristretti Orizzonti il 15 febbraio 2013

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