Carlo Galli: lavoro, democrazia e rappresentanza, temi strategici per la sinistra / 1

18 Febbraio 2013 /

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Carlo Gallidi Leonardo Tancredi
A pochi giorni dal voto un gruppo di 15 candidati di Pd, Sel e Rivoluzione Civile ha sottoscritto un impegno per una legge sulla rappresentanza sindacale e l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 148/2011 che di fatto ostacola il diritto dei lavoratori di esprimersi col voto sulle decisioni delle aziende che li riguardano. Carlo Galli – professore ordinario di storia delle dottrine politiche presso la facoltà di lettere e filosofia dell’università di Bologna, presidente della Fondazione Gramsci Emilia Romagna e candidato Pd alla Camera dei deputati – è tra i firmatari. I temi di lavoro, democrazia e rappresentanza sono oggetto anche del suo ultimo lavoro “Sinistra”, da poco uscito in libreria.
“Sono abbastanza parco nel dare la mia firma, ma trovo strategica la questione del lavoro e dentro di essa trovo strategica quella della democrazia nel lavoro e nei luoghi di lavoro. Ho l’impressione che lo sforzo posto in essere negli ultimi anni di far tornare i conti dell’economia, della finanza, della produttività, sia avvenuto a spese del lavoro comprimendolo sotto il profilo dei diritti, e i conti peraltro sono tutt’altro che tornati. Penso che il cambiamento che mi auguro sia segnato dell’esito delle elezioni, che non può essere solo quello del mantenimento dello status quo, debba misurarsi soprattutto sui luoghi di lavoro e nel rapporto tra lavoro e democrazia. La Costituzione contempla una Repubblica democratica fondata sul lavoro, non soltanto sull’astrattezza dei diritti moderni borghesi ma anche sul loro rendersi carne e relazione sociale, cioè il loro rendersi pertanto come forma di collegamento del soggetto a tutte le altre soggettività. Penso che il rapporto tra lavoro e democrazia debba essere interpretato come rapporto di potere tra il mondo dei lavoratori e il mondo dei datori di lavoro. Per la precisione come un riequilibrio di questo ora squilibrato rapporto di potere”.

In questa relazione qual è il ruolo della rappresentanza sindacale?
“Penso che il rapporto tra lavoro e democrazia passi anche per la questione della rappresentanza sindacale che va ridisegnata e dev’essere congegnata in modo tale che la fabbrica non sia un luogo in cui si entra per concessione del datore di lavoro, ma un luogo in cui il sindacato entra a priori e di diritto che firmi o che non firmi gli accordi che la parte padronale propone. La nostra democrazia ci dice che lo spazio del lavoro, anche lo spazio fisico, l’azienda, la fabbrica, benché sia uno spazio giuridicamente privato, benché esista il concetto di profitto privato, quello spazio ha una specifica rilevanza sociale, ha diritto e merita e ha in sé una potenzialità che va tutelata, la potenzialità di essere (la) una cellula della società, non solo la proprietà del datore di lavoro.
Tutto ciò significa che la fabbrica non è uno spazio privato come gli altri, perché se così fosse non ci sarebbe un bisogno del diritto del lavoro, basterebbe il codice civile per regolare i rapporti tra i prestatori d’opera e i datori di lavoro, il che non è, dunque esiste una specificità che è una specificità sociale e politica del lavoro, all’interno della quale c’è la riforma della rappresentanza sindacale. Una riforma nella direzione della garanzia della tutela della presenza nei luoghi di lavoro dei sindacati. A ciò si aggiunge, e fa parte del programma del Partito democratico, il tentativo di pensare di normare i livelli di contrattazione, spostandoli (certamente) dal contratto nazionale nell’impresa, fatto salvo che il contratto deve rimanere per motivi di garanzia e di tutela, per promuovere la partecipazione che è un concetto straordinariamente vago e tuttavia straordinariamente proficuo da sviluppare. La partecipazione può avere caratteristiche come quelle tedesche della cogestione o di informazione o può avere caratteristiche di relazione conflittuale ma di reciproco riconoscimento. Insomma, attraverso un mix di strumenti giuridici e di azione politico-sindacale, portare la democrazia nei luoghi di lavoro; penso che sia un momento di svolta e di cambiamento decisivo che ci si aspetta da questo passaggio elettorale”.
Questa posizione s’inserisce in un’idea di crescita o di uscita dalla crisi che non mette a disposizione i diritti dei lavoratori. Lei pensa quindi che sia una cosa possibile?
“Io penso che dentro questa crisi ci siamo finiti per tanti motivi e per alcune contraddizioni strutturali del neoliberismo, che sta mostrando la corda, che è superato nei fatti dalle politiche del Fondo monetario internazionale, dalle politiche di Obama e che soltanto in Europa ci si ostina a voler fare rispettare, in nome dei dogmatismi monetaristi che hanno fatto il gioco della Germania finora e che ora non fanno più neanche quello. Quando parlo di superamento dell’assetto neoliberista, da una parte so bene che in Italia il neoliberismo non c’è mai stato realmente, perché c’è stato piuttosto un attacco selvaggio allo stato sociale che ha trasformato l’Italia non in un paese neoliberale ma in un paese neocorporativo. Detto questo, e naturalmente non sto teorizzando l’uscita dalla forma di produzione capitalista, sto pensando a una forma della produzione capitalista diversa profondamente da quella attuale, un assetto che in un testo che ho appena pubblicato ho definito “neo New Deal”. Questo non vuol dire necessariamente tornare a ricette keynesiane, né necessariamente tornare al ruolo centrale dello stato come regolatore dell’economia, ma certamente vuol dire operare sulla società un cambiamento di analoga potenza rispetto a quello che fu operato nel New Deal roosveltiano, soprattutto nel secondo mandato di Roosevelt. Questo è possibile, è riformismo in senso proprio ed è qualcosa che si può almeno pensare senza essere degli utopisti”.
Continua

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