Melfi-val d'Agri, il benessere mancato / 3

26 Gennaio 2013 /

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di Gabriele Polo
Cento chilometri separano Melfi dall’altro sogno industriale lucano. Si trova a sud di Potenza, in val d’Agri, è coetaneo di quello automobilistico, ne è – in fondo – una premessa e si chiama petrolio. L’oro nero che può dare alla testa: minerale mitologico del XX secolo, Vello di ricchezza certa per chiunque se lo ritrovi sotto i piedi, fosse pure il paese più povero e disperato del mondo; nero come il volto della madonna che i contadini dell’Agri dicono di veder apparire ogni tanto sul Monte Sacro, che non sovrasta più i boschi di un tempo e le vigne di ieri, ma le fredde luci perennemente accese che distinguono un impianto chimico da ogni altra fabbrica.
È lì sotto da sempre, l’hanno scoperto quasi cent’anni fa – quantità stimata un milione di barili, valore ipotizzato 50 miliardi di euro – ma l’estrazione è iniziata verso la fine degli anni ‘80. Venticinque pozzi gestiti da Eni e Shell, 85.000 barili di greggio al giorno, quasi il 10% del fabbisogno nazionale, l’80% dei quattro milioni di tonnellate che ogni anni l’Italia produce, nel suo piccolo. Partita in gran spolvero, promettendo lavoro e ricchezza, l’estrazione petrolifera lucana non ha mai raggiunto gli obiettivi iniziali (120.000 barili al giorno), solo 300 sono gli occupati diretti e non si arriva a mille aggiungendoci quelli dell’indotto in senso lato – bar, ristoranti, pensioni, compresi. Quanto ai soldi, ne sono arrivati meno del previsto, almeno per la Basilicata e i suoi abitanti.
Nelle casse di regione e comuni della val d’Agri in tutti questi anni sono entrati meno di 800 milioni di euro, tra i 50 e i 70 l’anno a seconda dei “raccolti” e – soprattutto – della volubilità del prezzo, che si sono tradotti in un po’ di strade, manutenzioni, bonifiche e – soprattutto – in 100 euro di buoni benzina per ognuno dei 335.000 automobilisti regionali (censiti per patente di guida). A guadagnarci e molto sono state invece le due compagnie petrolifere, grazie al bassissimo livello di royalties che devono pagare all’erario italiano, il 10% del prezzo del barile. Una pacchia a confronto con le royalties pagate in altri paesi occidentali, dall’80% della Norvegia al 45% del Canada. Così, niente Texas all’italiana, deluse le attese dei telespettatori con Dallas negli occhi e la miseria in tavola.

Se soldi e lavoro hanno tradito le attese, pienamente rispettate sono state le previsioni sui disagi che l’oro nero porta inevitabilmente con sé, con la sensazione sempre più diffusa che non sia valsa la pena investire il futuro nel petrolio, anzi, che il costo pagato superi di gran lunga i benefici, economicamente e socialmente. Sede di un parco nazionale – e vicina ad altri siti d’interesse ambientale come il Pollino – la val d’Agri oggi denuncia tassi d’inquinamento da far invidia alle metropoli più trafficate e teme per la sorte delle falde acquifere che pure costituiscono una delle maggiori ricchezze della regione.
Sarà anche per questo che l’obiettivo dei 120.000 barili al giorno viene sempre rimandato: tra le tante recriminazioni quella per cui l’estrazione petrolifera frustra ogni prospettiva di sviluppo turistico, una risorsa sempre enunciata ma mai realizzata, basti dire che in tutta la regione nel settore sono stabilmente occupate meno di mille persone. E, così, il discorso ritorna alla tante delusioni prodotte dall’oro nero. Perché in una delle regioni più povere d’Italia – 18.630 euro il Pil pro capite, 8.227 reddito annuo medio, poco più della metà dei dati lombardi – è facile fare i conti e scoprire che il petrolio, ad esempio, non ha bloccato l’immigrazione verso il nord.
Anzi, la val d’Agri è una delle zone lucane da cui ci si allontana di più, in una regione che nel 2011 ha avuto un saldo migratorio negativo di circa 500 unità, ma la cifra si moltiplicherebbe per quattro senza l’apporto degli immigrati stranieri, mentre non è quantificabile il pendolarismo di lungo raggio. E sono cifre che riguardano un’annata tutto sommato positiva per la Basilicata, cresciuta in Pil del 2%, incremento che è stato completamente divorato dalla recessione del 2012, con un saldo negativo del 2,1% e previsioni altrettanto negative per il 2013. Che porterà con sé una crescita della disoccupazione verso il 15-16%, un bel salto dal 12% del 2011.
Delusi dal petrolio i lucani non possono nemmeno consolarsi con la Fiat. Perché, risalendo di 100 chilometri, per Melfi l’era Marchionne – coincisa con la grande depressione avviata dalle crisi finanziarie mondiali partite dagli Usa alla fine del 2007 – ha portato con sé un sacco di guai. Ingoiate controvoglia le conquiste sindacali della primavera 2004, la Fiat-Sata è finita per un po’ in una sorta di limbo: era – ed è – lo stabilimento più moderno, efficiente, produttivo e giovane d’Italia, sicuro di superare indenne qualunque crisi industriale. E, invece, il crollo delle quote di mercato Fiat in Italia e in Europa, dopo lo spostamento oltreoceano degli interessi del gruppo guidato dal manager italo-canadese che – proprio dal 2004 – tutto decide, ha lentamente portato la fabbrica lucana nella zona di rischio, come tutti gli altri stabilimenti italiani.
Magari non come Termini Imprese, la prima a chiudere, o come Mirafiori, in eterna e lenta agonia. Ma dal 2010, mentre Marchionne vara il progetto Fabbrica Italia, nella piana di san Nicola di Melfi l’astronave comincia a perdere colpi. Tutte le attenzioni del management vanno a Pomigliano e, poi, a Mirafiori, dove si tratta di imporre un’organizzazione del lavoro e un sistema di relazioni industriali di stampo americano, esempi da proporre a tutto il paese. E, mentre i lavoratori campani e piemontesi si battono, lacerano e dividono sulle promesse di Sergio Marchionne, le attenzioni e i nuovi modelli sono tutti per la Chrysler. La Fiat non è più un’impresa italiana, Melfi non è più il suo gioiello. Così il lancio dell’ennesima versione della Punto viene rimandato di anno in anno e nel 2012 a san Nicola si lavora due-tre giorni la settimana, non di più.
La vita si riprende il tempo che il lavoro le aveva sottratto, cosa impensabile nella fabbrica del “flusso teso”, nata per la massima utilizzazione degli impianti, dove per anni tutti hanno corso come pazzi. Una nemesi, ma poco consolante: non cambia la pesantezza al limite della sopportazione fisica dei ritmi durante il lavoro, c’è “solo” più tempo per recuperare, per riprendersi; ma è pagato da un salario ridotto, dalla paura per il futuro, dallo scaricare sull’Inps i vuoti produttivi. Nella speranza che il mercato si risollevi, anche se in pochi ci credono, nell’attesa che le ultime promesse della Fiat si avvicinino almeno un pochino alla realtà – il Suv marchiato Jeep e il Crossover 500x, che l’ultima esternazione di Sergio Marchionne ha dirottato da Mirafiori in Basilicata.
Così, sospesi come foglie autunnali, i lavoratori di Melfi hanno conosciuto lunghissime e inedite vacanze di Natale: dal 21 dicembre 2012 al 13 gennaio 2013 i 5.000 (ex) giovani operai della Sata – e quasi altrettanti loro colleghi dell’indotto – sono stati messi in cassa integrazione, per poi ricominciare a lavorare seppur a scartamento ridotto.
Non tutti, però. Per tre di loro alla cassa integrazione non si alterna il lavoro, ma un altro tipo di castigo. Accusati di sabotaggio durante uno sciopero e licenziati nel luglio del 2010, per rientrare in fabbrica sono saliti su tetti e monumenti – che ormai sembra l’unico modo per non rimanere invisibili – hanno fatto ricorso alla magistratura e, alla fine, i giudici li hanno reintegrati, condannando la Fiat. Ma per Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte, Marco Pignatelli – delegati e iscritti Fiom – i cancelli della fabbrica non si sono mai aperti.
È arrivato invece il telegramma con cui la Fiat comunicava che “non intende avvalersi delle (loro) prestazioni lavorative” e pur di non farlo li paga pr restare fuori. Barozzino la sua storia l’ha raccontata in un libro dal titolo pieno di orgoglio: “Ci volevano con la terza media, storia dell’operaio che ha sconfitto Marchionne”. Ma la vittoria dell’etica sull’abuso lascia un retrogusto amaro: “È triste, si sfiora la depressione”. Parole che potrebbero essere pronunciate da tutta una generazione di un intera regione. Forse, di un intero paese.
Fine

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