Melfi-val d'Agri, il benessere mancato / 2

19 Gennaio 2013 /

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di Gabriele Polo
Vista dalla collina che divide la piana di san Nicola dalla città di Melfi, la fabbrica sembra una grande nave spaziale dalle fiancate luminose con la chiglia immersa nel terreno, piombata da chissà quale pianeta. Solo avvicinandosi si cominciano a distinguere gli stabilimenti che occupano 1.850.000 metri quadri: le presse, la lastratura, la verniciatura, il montaggio, tutto a colori, tutto a grandi strisce bianco-azzurre, tutto molto diverso dal grigio di Mirafiori. Attorno, le macchie bianche e più anonime dell’indotto.
L’astronave Fiat è piombata qui vent’anni fa, un investimento di 4.671 miliardi di lire con l’obiettivo di sfornare 450.000 Punto l’anno, con le spintarella di un bell’aiuto di soldi pubblici (un terzo del costo totale) e deroghe contrattuali – a partire dal lavoro notturno anche per le donne – permettendo 18 turni a ciclo continuo e paghe del 20% più basse rispetto agli altri lavoratori del gruppo. Auspice, il vecchio Emilio Colombo – democristiano d’altri tempi – con gran giubilo delle popolazioni locali, come recitava un anonimo graffito di quei giorni che innegiava agli allora vertici della Fiat: «Grazie Romito, salutaci l’Agnello!».
Ci lavorano in 5.000 – altrettanti nell’indotto – tutti assunti non ancora trentenni al primo impiego, resi disponibili a (quasi) tutto da una disoccupazione giovanile al 50%. È il «prato verde» che, lasciando l’uguaglianza costituzionale fuori dai cancelli, garantisce flessibilità, bassi costi e zero conflitto: non è più tempo di diritti uguali per tutti, anche se appena oltre la collina c’è il castello da dove Federico II aveva promulgato una delle prime costituzioni europee, prodromo di cittadinanza che cancella la condizione servile. Lontano il ricordo dei briganti anti Savoia, che da queste parti ebbero buon asilo – conservato nel museo di Rionero in Vulture -, perché ora il comando dei piemontesi non usa più i bersaglieri ma la catena di montaggio.

Ai suoi esordi, da quando l’ha inaugurata Berlusconi – nell’ottobre del ’94, e quasi sembrava Mussolini nel ’39 a Mirafiori – qui si lavorava anche dieci notti di seguito, per poi far tre giorni di riposo e ricominciare per altre due settimane e via così, si guadagnava più o meno 1.600.000 lire al mese (oggi sarebbero 800 euro), non si scioperava. Perché lo sciopero «non rientra nelle moderne relazioni industriali», quelle del modello giapponese, ricorda la Fiat: risultato, secondo posto in Europa nella classifica delle fabbriche più efficienti, 1.600 auto al giorno, una settantina di macchine a lavoratore per anno, redditività di 180.000 euro a dipendente.
Per un decennio si va avanti così e molti osservavano questo paradiso della produttività chiedendosi fino a quando il modello Melfi possa reggere, se sarebbe scoppiato o se – invece – avrebbe rappresentato la quadratura del cerchio per la Fiat e l’esempio per l’industria tutta. Per dieci anni, dal ’94 al 2004, tutto fila via liscio, almeno apparentemente. Anche se, in realtà, già pochi mesi dopo l’inaugurazione berlusconiana inizia una silenziosa fuga. L’addio alla fabbrica dei sogni, la rinuncia a un posto di lavoro a lungo cercato ma troppo presto diventato un insopportabile peso. A un anno dall’apertura sono già un centinaio i giovani operai che rinunciano.
Nonostante indici di disoccupazione a due cifre e poche alternative, lasciano il posto sicuro. Se ne vanno in silenzio perché non sopportano i ritmi pesanti, i lunghi viaggi quotidiani, i turni notturni prolungati. Dopo l’illusione iniziale, i giovani in fuga dalla fabbrica si convincono semplicemente che uno stipendio sicuro non vale quella condizione di vita. Nemmeno nella terra della disoccupazione, nemmeno a trent’anni con il fisico che ancora ti sorregge. Vengono rapidamente rimpiazzati dalla lunga fila che attende “fuori”, ma sono un segnale d’allarme, un evento premonitore di ciò che accadrà dieci anni più tardi quando – improvvisamente – tutto salta, in una moderna rivolta. Tutta operaia, molto meridionale.
Quando nella primavera del 2004 la «Mirafiori del sud» si ferma, lo stupore è di tutti. Per la storia dello stabilimento è un debutto assoluto, dopo un decennio di pace sociale e altissima produttività. Anche quando la Fiom aveva tentato un’incursione dalla Sicilia chiedendo ai lavoratori lucani di diminuire i loro straordinari in solidarietà con gli operai di Termini Imprese (minacciati di chiusura già nel 2002, ben prima dell’era Marchionne), non c’era stata risposta, sfiorando lo scontro fisico tra lavoratori. Eppure, sotto la superficie qualcosa era successo perché, nonostante l’impoverimento relativo del lavoro operaio, la questione salariale sembra passare in secondo piano rispetto al valore attribuito all’organizzazione del lavoro, alla gestione degli orari, e al controllo sui livelli di flessibilità.
Tra il 2003 e il 2004 è sulla contrattazione dell’orario plurisettimanale che si accendono gli scontri più duri. E nella stessa Fiat Mirafiori – che stava subendo passivamente da anni la progressiva chiusura e il trasferimento dei modelli in altri stabilimenti – ritornano gli scioperi spontanei proprio quando l’azienda introduce una nuova metrica dei tempi di lavoro individuali (il Tmc2, Tempi dei movimenti collegati – seconda versione), quella già in vigore a Melfi, che incrementa i ritmi e la fatica. Emerge un problema di «sostenibilità» fisica: la «saturazione» degli impianti è considerata indispensabile dalle aziende per reggere la concorrenza internazionale e questo significa lavorare più tempo e più velocemente; perché tutto il tempo di vita è – almeno potenzialmente – occupabile dal tempo di lavoro, la prestazione diventa più intensa e pesante. La cosa non è facile da reggere, nemmeno per corpi giovani, e i cervelli cominciano a pensare che quella non è più libertà.
Fino a quel momento nell’astronave di Melfi le cose erano filate abbastanza lisce, per la Fiat. Isolata fisicamente e sindacalmente dal resto del mondo, la fabbrica è stata progettata come un’isola di lavoro in cui nulla doveva turbare il ritmo della produzione: presse che quasi non fanno rumore, robot antropomorfi che saldano scocche o spruzzano vernici, linee di montaggio che ruotano su se stesse, si avvitano, scorrono veloci. Attorno a questo cumulo di tecnologia, gli alieni abitanti dell’astronave si affannano per rispettare i tempi: trenta secondi per mansione per sei giorni alla settimana, una manciata di minuti al giorno per quei problemi fisiologici («benedetta» pipì…) che nemmeno tecnologia e organizzazione del lavoro riescono a cancellare.
Ogni mattina – o ogni notte – migliaia di giovani partono dai lontani e antichi paesi distanti anche 150 chilometri per correre verso l’astronave. I più fortunati – o più veloci – ci mettono venti-trenta minuti; i più sfortunati – o più lenti – un paio d’ore. Più di qualcuno, in quegli anni, si schianta su strade vecchie, strette e simili a un groviera svizzero. L’ingaggio sull’astronave lo hanno considerato un colpo di fortuna, perché solo uno su dieci degli aspiranti astronauti è stato assoldato nella ciurma. Gli altri nove sono rimasti a far la vita di sempre, fuori a inseguire affollati consorsi o briciole di lavoro saltuario. Agli «eletti» è stata fatta vivere fino in fondo la condizione di un «privilegio» che si trasforma in «colpa»: integrati nell’astronave, perché la «fabbrica snella» deve assorbire corpi e menti, prima ancora che il flusso dei materiali per la cui manipolazione è stata costruita.
L’esser stati scelti è il premio cui pagare il prezzo della fatica e della disponibilità, l’essenza del «prato verde». Poco devono contare le contraddizioni della vita quotidiana sull’astronave, dai tempi così densi alle tante pecche che la tecnologia del flusso teso porta con sé. Qualche portiera cade dal convogliatore? Basta scansarsi. Il robot della verniciatura s’inceppa? Basta sostituirlo con un umano. La linea di montaggio si blocca per qualche guasto? Basta poi aumentarne la velocità per recuperare il tempo perduto. Da quando l’astronave ha cominciato a sfornare automobili quasi tutti hanno accettato tutto, col retropensiero di dover essere grati alla Fiat per averli scelti.
Poi, improvvisamente, nella primavera del 2004, la Fiat inizia a «mettere in libertà» alcune squadre, poi altre, poi un po’ tutti. Sulle catene di montaggio arrivano le conseguenze degli scioperi fatti dai lavoratori lì attorno, quelli dell’indotto. Secondo un vecchio stile, l’azienda-madre scarica sui suoi dipendenti il blocco del just in time, il costo dei pezzi che non arrivano. Ma stavolta la reazione non è contro gli scioperanti, è contro l’azienda. Assemblea nel piazzale, confronto con quelli dell’indotto, blocco totale del lavoro in tutta l’astronave e nelle navicelle circostanti.
Come un fiume in piena contenuto per troppo tempo, straripa il racconto di un mondo e dei suoi dolori: «Siamo stanchi – spiegano gli ex alieni – di aspettare settimane o mesi per discutere nelle commissioni partecipative i problemi che viviamo ogni giorno sulle linee di montaggio. E, poi, non cambia nulla». Alle ragazze e ai ragazzi che vivono nell’astronave sembra una beffa quell’espressione «messa in libertà», la libertà usata dalla Fiat per lasciarli senza lavoro. Vorrebbero passare dalla condizione di sudditi a quella di cittadini, raccontano le loro storie, non ci stanno a essere considerati «integrati», pezzi dell’azienda e non si accontentano più di esibire – come vanta la Fiat – la tuta di lavoro nelle passeggiate in città: «E se non avessimo avuto il tempo per togliercela?». Soprattutto non ne possono più dei lunghi turni notturni, della flessibilità, del dover recuperare con la fatica qualunque inconveniente tecnico. E di essere «soli», di non poter mai affrontare le cose comuni in gruppo. Al massimo una prece individuale, sperando nel buon cuore del capo.
Dopo ventun giorni di sciopero a oltranza, blocco dei cancelli, manifestazioni, diciotto ingiunzioni di sgombero della magistratura, un paio di cariche della polizia, alla fine ce la fanno. Niente più doppio turno notturno, conquistati aumenti salariali e un ruolo contrattuale alle Rsu in fabbrica. Per Melfi è una liberazione, un vero 25 aprile.
Continua

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