La Russia scopre il femminicidio

18 Gennaio 2013 /

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di Astrit Dakli
Ci voleva un terrificante assassinio, con protagonisti conosciuti al grande pubblico, perché in Russia si incominciasse a parlare di violenza domestica e di femminicidio, fenomeni che in realtà hanno nella società russa un peso devastante ma sono stati finora confinati al cupo regno dei “panni sporchi lavati in famiglia” o a quello della semplice cronaca nera. Aleksei Kabanov, co-fondatore di uno dei locali più cult della Mosca post-sovietica (il celebre Project O.G.I.) ha confessato di aver strangolato la moglie Irina Cherska, nota giornalista e madre di tre figli piccoli, e di averne poi fatto a pezzi il corpo nella speranza di disfarsene più facilmente. In precedenza, per settimane, Kabanov aveva sostenuto che la moglie era “scomparsa” e aveva lanciato accorati appelli su Facebook, lasciando pure intendere che potesse esserci un complotto contro di lui per via delle sue simpatie verso l’opposizione anti-putiniana.
Ma quel che ha provocato una reazione sgomenta e l’avvio di un dibattito sulla violenza domestica, forse anche sull’onda delle campagne che in altri paesi da qualche tempo stanno portando alla luce l’argomento, è stata la notizia secondo cui da parecchio tempo amici e familiari sapevano che Kabanov picchiava sistematicamente Irina, anche se nessuna denuncia era mai stata sporta.
Che in un paese dalle feroci tradizioni maschiliste come la Russia la nozione di violenza domestica non sia ancora entrata nel codice penale potrebbe non stupire più che tanto. Nonostante il maschilismo imperante nelle relazioni dirette uomo-donna (nell’ambito della coppia o della famiglia), però, è anche vero che le donne in Russia, attraverso la lunga e complessa esperienza sovietica, hanno comunque raggiunto un grado di autonomia economica e di emancipazione sociale molto alto, giungendo a dominare professioni come quella medica o quella giudiziaria (fatti salvi i gradini più alti) e arrivando spesso anche a ruoli di comando nelle aziende e nelle strutture di governo.

Per questo, l’assenza di qualsiasi normativa di legge – e di conseguenza di qualsiasi statistica ufficiale – in materia di violenza domestica colpisce per la sua incongruenza: è come se le donne russe fossero andate avanti, e molto, quanto a ruolo pubblico, “dimenticandosi” della loro condizione nel privato, dove il fatto di essere spesso quelle che mandano avanti – e mantengono a tutti gli effetti – la famiglia non le mette al riparo dalla volontà di dominio dell’uomo di casa, espressa anche a suon di botte. E tanto più quanto più è evidente, nella coppia o nella famiglia, lo scarto sociale a favore della donna: cioè quando lei ha un buon lavoro e guadagna bene mentre lui magari è alcolizzato e non lavora più, o comunque non si mostra in grado di reggere il tremendo stress della concorrenza – in un paese dove la sicurezza misera ma garantita a tutti del socialismo reale è stata bruscamente sostituita dalla sfrenata competizione senza rete del liberismo.
Nessuna statistica ufficiale, quindi: ma chi lavora da tempo su questi temi afferma che in base ai risultati di alcune inchieste sociologiche almeno la metà delle donne russe ha subìto qualche genere di violenza maschile nella propria vita; e sarebbero dell’ordine di diecimila all’anno le donne uccise da uomini nell’ambito della famiglia o della coppia – un numero talmente enorme da apparire incredibile. Con tutto ciò, sono finora soltanto una ventina in tutta la Russia (che ha oltre 140 milioni di abitanti) i centri antiviolenza riconosciuti, che possono offrire aiuto ed eventualmente ospitalità a donne in pericolo: una rete di assistenza ridicolmente insufficiente rispetto alle necessità e per giunta soggetta a una serie di gravi limitazioni burocratiche da parte dello Stato, che non consente per esempio di ospitare per più di tre giorni donne non residenti nella città dove si trova il rifugio. Adesso, da più parti si stanno levando voci che chiedono al parlamento di introdurre nella legislazione il reato di violenza domestica e quello di femminicidio, per incominciare quantomeno ad affrontare il problema. Non è detto che queste voci ottengano il risultato che chiedono, ma se non altro è un inizio.
Questo articolo è stato pubblicato su Globalist il 16 gennaio 2013

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