Reportage dalla Palestina: giocare alla guerra

23 Novembre 2012 /

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di Handala
Riassunto delle puntate precedenti: 1948, anno dell’indipendenza per Israele, per i Palestinesi Nakba, la Catastrofe. Ben Guriom e gli amici suoi pianificano e attuano con mirabile efficacia il cosiddetto Piano Dalet, ovvero la pulizia etnica del territorio che ora È considerato Israele. Centinaia di villaggi distrutti e circa 800.000 palestinesi in fuga, convinti di poter presto tornare. A 64 anni di distanza, loro e i loro figli e nipoti vivono nei campi profughi in Cisgiordandia come a Gaza, in Siria come in Libano e in Giordania. Ad oggi, i rifugiati palestinesi nel mondo si calcolano intorno ai 5 milioni, contro i 6,1 milioni di palestinesi in Cisgiordania e Gaza. Quale futuro per queste persone? Nessuna possibilita’ di ritorno nelle loro case, perché Israele, secondo la definizione ufficiale, è uno Stato democratico ed ebraico, il che implica la necessaria superiorita’ demografica degli Ebrei sulle altre minoranze.
È solo in quest’ottica che si possono capire le politiche sioniste, solo così si comprende perché la Nakba non è mai finita, dall’occupazione completa della Palestina storica (Gerusalemme compresa) nel 1967, alle quotidiane demolizioni di case in Valle del Giordano come a sud di Hebron come a Gerusalemme Est, all’espansione delle colonie e all’appropriazione delle risorse idriche. La lente di lettura che, credo, unisca tutti i tasselli È proprio l’adagio il massimo di terra con il minimo di Palestinesi. Non è quindi mera conquista, la guerra si gioca anche sul piano demografico. È per questo che la West Bank non è stata semplicemente annessa allo Stato di israele: la popolazione non ebrea sarebbe piu’ numerosa. Idem per Gaza: tutti questi territori vanno bonificati dagli Arabi. Una pulizia etnica strisciante e costante, creativa e diversficata: divide et impera, certo, ma anche ubi solitudinem faciunt, pacem appellant. Desertificare per ripopolare.

Stranamente, le solite manifestazioni del venerdì contro il Muro (dichiarato illegale dalla Corta Internazionale dell’Aia il Luglio del 2004) questa settimana sono state meno violente. Certo, bombe sonore e rubber bullets che -vi assicuro- di rubber non hanno niente, questa è la norma, ma pochi lacrimogeni. A Kafr Kaddum, villaggio resistente che da anni lotta contro la costruzione del Muro dell’Apartheid, la gente era quasi spiazzata: dove sono i teargas che ci intossicano ogni venerdi? A quanto pare, i settlers si sono pesantemente lamentati con l’esercito per la gestione delle manifestazioni. Con grande coraggio, hanno detto a chiare lettere che così non puo andare più avanti: la nube tossica di lacrimogeni arriva fino alle loro case della vicina colonia di Qedumim, e li disturba molto, perciò l’esercito smetta di usarli. I soldati hanno obbedito.
Ieri andiamo vicino a Tubas, a nord-est. Siamo al confine con la Valle del Giordano. Quest’area, un terzo della Ciagiordania, È al 97 per cento circa Area C, ovvero sotto il controllo militare e amministrativo di Israele, e la popolazione non ha diritto a costruire abitazioni, scuole, ospedali, niente di niente. Qui l’Apartheid si vede e si tocca con mano. La terra brulla, desertica, è intervallata da macchie verdi lussureggianti che paiono miraggi. Sono colonie agricole (illegali secondo il Diritto Internazionale, nel caso servisse ripeterlo) dove lavorano molti palestinesi, anche minorenni; è qui che si producono i deliziosi datteri e frutti vari che noi compriamo nelle nostre Coop, prodotti su cui c’è scritto “made in Israel”.
Invece dovrebbe esserci scritto “made in Palestina, occupata dal 1967”. Qui un colono comsuma giornalmente 5 volte i litri d’acqua usati da un Palestinese, qui tutti i giorni vengono demolite dall’esercito case considerate illegali, scuole e cisterne, qualsiasi cosa che abbia un tetto sotto cui proteggersi. Qui le falde acquifere vengono dirottate verso le colonie, i villaggi beduini vengono distrutti di continuo e gli abitanti cacciati via. Qui la popolazione sta, lentamente, andandosene, perchÈ coltivare e allevare, attività secolari di chi vive in questa valle da generazioni, non è piu possibile. Qui è facile vedere strade separate tra coloni e palestinesi, oppure un villaggio beduino senza acqua corrente su cui passano cavi elettrici off limits per loro, ma destinati a una colonia a 50 metri di distanza. Se non questo non è Apartheid, cosa lo è?
Scrive Desmond Tutu in una lettera a supporto del boicottaggio di prodotti israeliani (la cosiddetta Campagna BDS):

I have been to the Ocupied Palestinian Territory, and I have witnessed the racially segregated roads and housing that reminded me so much of the conditions we experienced in South Africa under the racist system of Apartheid. I have witnessed the humiliation of Palestinian men, women, and children made to wait hours at Israeli military checkpoints routinely when trying to make the most basic of trips to visit relatives or attend school or college, and this humiliation is familiar to me and the many black South Africans who were corralled and regularly insulted by the security forces of the Apartheid government. In South Africa, we could not have achieved our freedom and just peace without the help of people around the world, who through the use of non-violent means, such as boycotts and divestment, encouraged their governments and other corporate actors to reverse decades-long support for the Apartheid regime.

Arriviamo nel villaggio di Atuff, e vediamo la guerra. Ogni 60 secondi ci sono esplosioni fortissime sulla collina vicino a noi. A qualche chilometro, un numero impressionante di carrarmati e jeep, elicotteri e altri mezzi militari. Non ho mai visto nulla del genere, la scena mette i brividi. Ci spiegano che è in corso un addestramento militare congiunto tra Israele e USA: per questo motivo, hanno sgomberato 3 villaggi che risiedono sfortunatamente nell’area utilizzata per il training.
La popolazione, che si conta in più di un centinaio, ha ricevuto warning papers incomprensibili nei quali si ordina loro di lasciare le loro case: alcuni per un giorno, altri dalle 6 di mattina alle 6 di pomeriggio per tre settimane, altri fino alla fine dell’anno. Per far cosa? Per allenarsi. Per giocare alla guerra. I crateri e il fumo che vediamo ergersi vicino lasciano poco alla fantasia. Viene lanciato un razzo, il rumore è assordante. Oggi 12 Novembre passiamo uno dei vari checkpoint che circondano la valle e andiamo a Samra, comunità beduina. Per strada passano convogli infiniti di mezzi militari, di continuo. All’ingresso del villaggio, davanti a tende e capre, carrarmati. Tanti.
Fanno paura.
Perché tutto ciò? La domanda mi ronza in testa. Esercitazioni del genere, la gente di qui ne ha vista tante. Ma questa è davvero in grande stile. A cosa si preparano? All’Iran, probabilmente. A Gaza, dove bombardano da tre notti costantemente, 7 morti e 52 feriti ora che scrivo, e dove giovedi proiettili o schegge di tank hanno ammazzato un tredicenne mentre giocava a pallone.
Sì, certo. Ma ogni occasione è buona: la gente di qua ci dice che quella del military training è solo una scusa per cacciarli da dove vivono e impedir loro di tornare, che non sarebbe di certo la prima volta. Almeno una famiglia si é già vista negare il rientro. Giocare alla guerra fa male per davvero.
E poi credo ci sia l’aspetto simbolico, di comunicazione. Questa bella recita serve a ricordare chi comanda, e cosa puo’ chi comanda, quando dove e come vuole. È un post-it di polvere da sparo, un memorandum di cingolati.
Infine, è un’antcipazione del futuro, una previsione: involontariamente, mostra con eloquenza il progetto di democrazia di questi due eserciti e governi, Israele e Stati Uniti. Quello che vedo è terra bruciata, spogliata dalla fastidiosa presenza umana, crateri nel terreno, e fumo che avvolge tutto. Quello che sento sono esplosioni e spari d’artiglieria, non contrapposti ma mescolati ad un silenzio innaturale, gelido, che ricopre per chilometri una geografia finalmente liberata, pacificata, senza striature che non siano le scie dei razzi che sgozzano il cielo.
Vado da Abed, un amico del campo profughi di Balata. Sta ristrutturando casa sua perché tra un po’ si sposa, inshallah, e dovrà costruire un altro piano sopra alla sua attuale abitazione perché è l’unico spazio ancora libero dove andare a vivere. Le case fatiscenti dei campi profughi crescono sempre di più, anno dopo anno, come piante non innaffiate che hanno passato troppo tempo all’ombra. Sorseggiando il solito delizioso shai (il té), gli mostro una guida di Bologna che ho portato con me. In quanto Palestinese, oltre a non poter andare in Israele (a rivedere la casa dei suoi genitori, magari) né a Gerusalemme, è praticamente impossbile per lui poter viaggiare all’estero, così provo a portargli io un po’ di Bologna. Gli racconto delle nostre torri medievali, simbolo della potenza nobiliare. Non capisce bene questo sfoggio di ricchezza fine a se stessa, però sorride e dice: “Voi avete smesso di fare torri, ora siamo noi a proseguire la vostra tradizione”. Poi si ferma e aggiunge: “Però a noi, almeno, servono per viverci”.
Uccidere l’ironia, per quanto amara, questo ancora non sono riusciti a farlo.Palestina - Foto di Joseba M. Arginzoniz Martin

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