Rientrando nel mito: lo strano caso dei fratelli Cervi, icona dell'antifascismo e dell'anticomunismo

22 Novembre 2012 /

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di Mirco Zanoi, coordinatore culturale Istituto Cervi
L’elemento più interessante e fecondo, nel lancio del romanzo di Dario Fertilio L’ultima notte dei Fratelli Cervi, è la permanenza del mito attorno all’icona dei Cervi. Siamo i primi a rallegrarci di questo rifiorito interesse, anche se non ci risultano novità storiografiche e documentarie. Elementi, insomma, che possano riaprire la ricostruzione di quei momenti frenetici e disperati, che costituirono il primo vero confronto a Reggio Emilia tra la Repubblica Sociale e il nascente movimento partigiano.
Siamo, giusto per ripercorrere un po’ la storia, alla fine del 1943, quando ancora parole come Resistenza, CLN, Brigate di vario colore stavano nella testa di pochi. E la Liberazione lontanissima nei tempi, oltre che incognita nei modi. La guerra “vera” aveva toccato il suolo italiano da poche settimane, trasformando buona parte della penisola in zona occupata; una gigantesca retrovia del fronte tra due visioni di occidente. A cui si aggiungeva certamente una terza visione dell’Europa e del Mondo, che guardava ad est.
Permanenza del mito, si diceva: pochi frutti del patrimonio simbolico del ‘900 italiano hanno il privilegio di essere emblemi dell’antifascismo, e allo stesso tempo (con minor forza ma non poca durata) dell’anticomunismo. Ai Cervi tocca questa sorte, tutt’altro che singolare a ben pensarci. C’era (e c’è) qualcosa di assolutamente perfetto nell’epopea familiare dei Cervi, quando Togliatti prima e Calvino poi elessero questa vicenda a narrazione pubblica, a mito fondativo della Resistenza nelle campagne: innovatori irruenti e irriducibili, avanguardie di una minoranza antifascista, ancor più minoritaria ed esclusiva perchè domestica, fatta letteralmente in casa attraverso letture le più disparate. Perfetta perché lascia sul campo 7 vite preziose (un numero epico, da Tebe ai western, passando per i Samurai), ma al contempo lascia integra una casa destinata a diventare luogo di memoria, e un volto anziano e saggio come quello di Papà Cervi; una storia insomma,che ha tutti gli ingredienti per il bestseller. Come infatti fu.

Non più tardi di poche settimane fa (il 5 settembre scorso), era il ministro Andrea Riccardi, per l’occasione nelle vesti a lui congeniali di professore ordinario di storia contemporanea, a notare che la parte più interessante del Museo Cervi oggi è quella che affronta e storicizza la nascita del mito, l’investimento ideologico di narrazione che il Pci e la sinistra italiana mettono in campo sul “caso” Cervi. Riconoscere “l’imposizione di una memoria”, sempre citando Riccardi, non serve tanto a ridimensionare il mito, quanto a comprendere il suo radicamento.
Per le stesse ragioni (l’approccio personale e irregolare alla lotta antifascista, il poderoso investimento di propaganda comunista, eccetera), i sette fratelli reggiani sono da decenni sorprendente icona di una corrente culturale, storiografica, giornalistica che stigmatizza metodi e finalità del contributo comunista alla lotta di Liberazione. Loro malgrado, i Cervi sono paladini dello spirito libertario di fronte agli arcigni cospiratori rossi, vittime dei loro contrasti con la cellula locale del PCI, piuttosto che della loro avversione al regime e alla guerra. Si tratta di una tesi non certo inedita.
Occorre riconoscere che fra i miti dell’Italia moderata, forse non antifascista ma afascista, c’è anche questo: il comunista cattivo e stalinista che congiura contro la libertà, e lavora per la dittatura del proletariato, seminando cadaveri dei propri oppositori. Che questo abbia poco a che fare con i comandi unici e l’unità politica del fronte antifascista, la scrittura della Costituzione, con il governo reale delle terre rosse, poco importa. Come è sopravvissuta, nella memorialistica e nella “saggistica interessata”, lo spettro di un sordido retroscena alle spalle dei Cervi, ordito dai rivali più ortodossi del movimento reggiano, che oltre all’isolamento ne avrebbero causato più o meno indirettamente la cattura e la morte.
A prescindere dai fatti documentati. Ma soprattutto a prescindere dalla durissima realtà che si stava vivendo, quasi che i fascisti e i nazisti fossero spettatori imbelli di un dibattito interno tra le forze antifasciste.
Non deve affatto scandalizzare i puristi, poi, che siano libri opportunamente definiti romanzi a riaprire il dibattito. La stessa Resistenza ha scelto di raccontarsi, fin dal primo dopoguerra, attraverso memorie e romanzi, filtro letterario forse necessario per un racconto cosi complesso. La narrazione della storia si è sempre avvalsa di mediatori di verosimiglianza; in senso più ampio, del resto, la stessa memoria di Papà Cervi, I miei sette figli, è stata rieditata da Einaudi con una robusta prefazione storicoanalitica, e assurta al rango di letteratura del ‘900.
Occorre, tuttavia, evitare l’ingenuità di chiedere ad opere del genere la famigerata Verità. Raccontare la verità assoluta di una lotta clandestina, asimettrica, plurale, conflittuale, in un contesto tattico impossibile e drammatico come la guerra partigiana è opera probabilmente vana. Non è mai inutile invece, cercare di comprendere il clima di totale straordinarietà in cui gli italiani si trovarono a scegliere, vivere, morire; e in questa opera di comprensione l’unica deontologia possibile è l’onestà intellettuale e la documentazione.
A differenza di Fertilio, se interpretiamo bene il sottotitolo del romanzo (“un giallo nel triangolo della morte”), non abbiamo nessun interesse nello scagliarci contro i miti. Ma intendiamo comprenderli, specialmente quando risultano complessi e ambivalenti come nel casi dei sette fratelli Cervi. Di questo ci piacerebbe discutere con l’autore proprio a Casa Cervi, e quindi rivolgiamo un invito a discutere anche di questo prossimamente; un invito che estendiamo allo stesso editore Marsilio, particolarmente sensibile a questo dibattito storiografico, avendo pubblicato Storchi, Sessi e tanti altri autori che si sono misurati con questo critico frangente storico. Una discussione, in definitiva, che auspichiamo, laica e intellettualmente franca, sul perdurare di questi simboli dell’Italia popolare, delle icone a corrente alternata come i Cervi, e del dibattito a tratti storiografico a tratti meno.
Ci sia consentito però, in chiusura, di ricordare a tutti i fatti, da cui questa discussione dovrebbe necessariamente continuare. Il primo: i sette fratelli Cervi, pur nell’autonomia del loro approccio, si sono riconosciuti ampiamente nella azione clandestina comunista negli anni e nei mesi più duri dell’attività antifascista. Il secondo: sono noti e documentati i dissidi tra dirigenti locali nel giudicare l’operato dei Cervi, troppo irruenti o troppo indipendenti, in alcuni casi forse troppo popolari. Tanto radicati che la pratica per le medaglie d’argento al valore venne istruita da Parma. Il terzo: ben pochi si giovarono della uscita di scena dei Cervi, che fu un colpo durissimo per la nascente rete clandestina locale, e per i dirigenti stessi “bruciati” da possibili confessioni. Il quarto e più importante di tutti: ad incendiare la casa circondata nel novembre ’43 sono i fascisti della Guardia Nazionale Repubblicana, ed è il fascismo che ne decreta la morte e che esegue l’esecuzione, un mese dopo.
A furia di parlare di miti e racconti, di regolamenti di conti e di cospirazioni internazionaliste, parrebbe quasi che i Cervi e la loro storia, come quella di tanti altri italiani coraggiosi, non sia mai esistita; ma soprattutto, che non sia mai esistito il nazifascismo, e le buone ragioni per combatterlo, qui a casa nostra.
Questo articolo è stato pubblicato dall’Istituto Cervi di Gattatico (Reggio Emilia)

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