di Andrea Fumagalli
È finalmente uscita la traduzione italiana del libro di Guy Standing, The precariat. The Dangerous class (Precari. La nuova classe esplosiva, Il Mulino, Bologna, pp. 312, euro 19). Dell’edizione originale il manifesto aveva già pubblicato una recensione nel giugno 2011. È interessante notare che nella versione italiana si è preferito tradurre «Dangerous class» con «classe esplosiva», una traduzione che lascia intravvedere, a differenza della versione originale, che la condizione precaria non solo vive una situazione già di per sé difficile (appunto esplosiva) ma può anche dare adito ad «esplosioni» sociali.
Nella versione inglese, l’attributo dangerous (pericoloso) rimandava a quella parte del contenuto del libro in cui il sociologo inglese, docente di Economic Security nell’Università di Bath in Gran Bretagna e ex-consulente dell’Ilo (International Labour Organization, dal quale è stato allontanato per divergenze politiche), sosteneva che la precarietà poteva favorire svolte politiche xenofobe, corporative, in ultima istanza, fasciste. La traduzione italiana è, da questo punto di vista, più ottimista. Eppure, non abbiamo registrato all’indomani di quella «istituzionalizzazione» della condizione precaria come paradigma del rapporto di lavoro contemporaneo che è stata la riforma Fornero, una capacità di reazione che potesse pensare a possibili situazioni esplosive! La situazione di crisi, di ricatto e di peggioramento delle condizioni di vita (che oggi sono le condizioni di lavoro – la precarietà è soprattutto precarietà esistenziale) ha sicuramente fatto la sua parte.
La condizione precaria, come giustamente ricorda Standing, è «una classe in divenire, non ancora una classe in sé». Ne consegue che il tradizionale armamentario analitico-politico che è stato forgiato, sperimentato e innovato nel corso del Novecento a proposito della classe operaia e del proletariato come classe omogenea diventa inutilizzabile. Affrontiamo quindi una situazione complessa, perché definire una «classe in divenire» implica una metodologia di analisi nuova, in grado di delineare in modo rigoroso l’eterogeneità dei confini del precariato, coglierne appunto le differenze per ricomporle ad un livello superiore e diverso.
Tra rabbia e alienazione
La precarietà è diventata oramai una condizione esistenziale, strutturale e generalizzata. Come scrive Standing, questa situazione di incertezza, di illusione, di ricattabilità ma anche di consenso, in una parola, di mancanza di futuro, è al tempo stesso una potenzialità e un limite. Nella sua analisi (che non si discosta molto dall’elaborazione che nel concreto è stata avanzata anche dai movimenti italiani – in primo luogo l’esperienza della Mayday e di San Precario), Standing individua alcune elementi di omogeneità : «Anger, Anomie, Anxiety, Alienation», (acredine-rabbia, anomia, ansietà, alienazione). Essi rappresentano la frustrazione del precariato all’interno di processi di individualizzazione del lavoro che ne favoriscono l’accentuazione.
Il processo di soggettivazione e di consapevolezza (quella che un tempo si sarebbe chiamata «coscienza di classe») è quindi un percorso tortuoso e complesso. Al riguardo Standing individua, contro l’attuale «politica dell’inferno», una «politica del paradiso».
Di che si tratta? È una politica di transizione che è necessario cominciare, sia a livello culturale che politico: dai diritti sul lavoro alla libertà di movimento e di occupazione (diritto di scelta del lavoro): dalla critica ai processi di workfare e di smantellamento del welfare state alle politiche pubbliche e di commonfare di accesso ai servizi di base; dalla libera formazione e libertà di accesso alla conoscenza alla necessità di controllare e ridurre il tempo di lavoro. In tutti questi aspetti, uno dei perni centrali (sicuranment non l’unico), come grimaldello e condizione strumentale per la loro realizzazione è la proposta di un reddito di base incondizionato (Rbi).
Una via di fuga dall’inferno
Al riguardo, la pubblicazione in italiano del libro di Standing è tempestiva: essa è avenuta a ridosso delle diverse mobilitazioni che innervano «la settimana sul reddito» dal 15 al 21 ottobre (di cui Il Manifesto ha parlato il 17 ottobre), che hanno una duplice finalità. Da un lato, il sostegno alla legge di petizione popolare per l’introduzione di un reddito minimo garantito e di un salario minimo, proposta da un insieme variegato di forze sociali, con l’obiettivo di ammodernare il sistema della sicurezza sociale italiano a standard consoni alla nuova composizione del lavoro vivo. Non si tratta di estendere l’attuale, iniquo e distorto sistema degli ammortizzatori sociali, modificando lievemente i parametri di accesso (all’interno di una logica di coazione al lavoro), ma di immaginare un unico ammortizzatore sociale che garantisca un reddito minimo a prescindere dalla condizione lavorativa.
La proposta di reddito di base incondizionato, o congruo alle aspettative del possibile beneficiario, è uno strumento che non è funzionale all’inserimento nell’infernale mondo del lavoro, ovvero uno strumento per esigere il costituzionale «diritto al lavoro». È molto di più, vuole consentire la possibilità di esigere «il diritto alla scelta del lavoro», partendo dal presupposto (concreto e reale) che oggi il processo di valorizzazione fa perno sullo sfruttamento di una capacità lavorativa e di vita che è direttamente produttiva di valore, anche laddove non è certificata come tale dalle norme legislative e contrattuali oggi vigenti. È in questa direzione che può essere, non a caso, coniugata una «politica del paradiso», ovvero una «politica del desiderio».
Dall’altro lato, proprio partendo dalla constatazione che il tempo di formazione, istruzione e apprendimento come il tempo di riproduzione, cura, manutenzione dei «corpi», il tempo della mobilità e della socialità, il tempo della realizzazione (consumo) rientrano nell’attuale capitalismo come forma di accumulazione non pagata, la proposta di un redito minimo non può essere considerata meramente assistenza ma è piuttosto forma di remunerazione forfettaria di quella cooperazione e produzione sociale che oggi viene espropriata a vantaggio dei profitti e delle rendite.
I tag di un forum
Su questi temi, a Milano, sabato scorso è stata indetta l’«Agorà del reddito», uno spazio di dialogo aperto pensato da San Precario in collaborazione con Macao in cui i nodi, i dubbi e le potenzialità di un reddito di base incondizonato sono state presentate, chiarite, discusse, a partire da parole chiave che ciascuno dei partecipanti è invitato a sceglier al momento dell’inizio della discussione.
Il dibattitto sul reddito in Italia ha scontato da un lato una pregiudiziale lavorista soprattutto da parte sidacale e della sinistra più tradizionale (e infatti le mobilitazioni su cui maggiormente ci si mpegna sono legate alla difesa del lavoro, a prescindere alla sua natura), dall’altro ha peccato di eccessiva astrazone teorica. È ora di inquadrare il tema nella sua praticabilità e realizzazione effettiva. La possibiltà di aprire laboratori metropolitani sul reddito, a partire dall’incontro di Milano, può rappresentare uno strumento utile per affermare che è il reddito, più che il lavoro, il vero bene comune.
Questo articolo è stato pubblicato sul Manifesto del 19 ottobre 2012