La vera storia di Mauro Di Vittorio, vittima della strage di Bologna e dell'«ultimo depistaggio»

18 Ottobre 2012 /

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di Giaime Garzia
Aveva 24 anni e la sua vita finì alle 10.25 del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, insieme a quella di altre 84 persone. Si chiamava Mauro Di Vittorio e da alcuni mesi a questa parte il suo nome è stato ripescato perché, ha sostenuto il parlamentare di Fli Enzo Raisi, avrebbe potuto essere stato involontariamente coinvolto nel trasporto dell’esplosivo deflagrato alla stazione di Bologna. Perché? Secondo il politico finiano, perché da presunto militante dell’Autonomia di Roma sud avrebbe collaborato con il Fplp e con Carlos alla preparazione di un attentato. Oggi il Manifesto in edicola invece ristabilisce il reale andamento dei fatti con un articolo di Paolo Persichetti intitolato L’ultimo depistaggio (qui l’anticipazione sul sito del giornale). Scrive Persichetti:

Luciana Sica di Paese sera, in una cronaca apparsa il 13 agosto 1980, racconta le ore passate nella casa di via Anassimandro, nel quartiere romano di Torpignattara. Descrive il clima attonito di una famiglia che per dieci lunghi giorni non ha voluto credere ai ripetuti segnali che annunciavano la tragica fine del loro congiunto, come la telefonata della questura felsinea del 3 agosto che – forse per un eccesso di cautela – riferiva soltanto del generico ritrovamento della sua carta d’identità in città.

La cronista raccoglie le prime dichiarazioni del fratello più piccolo, Marcello, e quelle della zia che ancora non riescono a capacitarsi di quella rimozione. Riferisce dell’interessamento dei vicini che invece hanno sentito in televisione la descrizione dei corpi ancora non identificati ed hanno subito capito; finalmente Anna dopo una telefona all’obitorio decide di partire verso la capitale emiliana insieme a due amici. È lunedì 11 agosto, giunta all’istituto di medicina legale entra, sono le nove di sera e all’interno c’è poca luce, i suoi amici non resistono all’odore, tutt’intorno ci sono resti di cadaveri, Anna «vede il corpo del fratello, esce e dice di non averlo riconosciuto». Chiama Marcello a Roma per sapere se Mauro avesse dei pantaloni di velluto grigio. La risposta non offre scampo: «È lui».

In merito invece alla presunta militanza di Mauro, Persichetti ha scovato il numero del 21 agosto 1980 di Lotta Continua che pubblicava il diario in versione integrale, quello che da destra si sosteneva fosse stato almeno in parte, se non del tutto, artefatto forse addirittura a opera dell’associazione fra i familiari delle vittime del 2 agosto 1980. Era corredato, il diario, da una lettera firmata “I compagni di Mauro”:

Gli autori del testo sono ex di Lotta Continua del circolo di Torpignattara, ancora aperto nel 1980 – come accadde anche per altre sedi del gruppo – punto di riferimento per una parte di quella fragorosa comunità politico-esistenziale che non si era rassegnata allo scioglimento dell’organizzazione quattro anni prima. Mauro, che dopo la morte prematura del padre aveva lasciato la scuola per aiutare la famiglia, era molto conosciuto, amato e stimato. I suoi compagni lo descrivono come «una persona, un compagno inestimabile che sapeva dare tutto a tutti. Capace di dare se stesso in qualsiasi momento. La persona che tutti avrebbero voluto vicino per qualsiasi cosa: per un viaggio, per parlare di se stessi, della vita, delle contraddizioni e dei problemi che ci si presentano quotidianamente».

I riscontri a ognuna di queste affermazioni esistono, come si vedrà. Intanto, però, qualche giorno dopo esce, sempre su Lotta Continua, un’altra lettera che parla di Vittorio, stavolta sottoscritta da “alcuni amici di Mauro”:

Per [lui] la parola compagno era diventata vuota e priva di senso come lo è diventata per noi, perché questa maturazione l’avevamo vissuta insieme e insieme avevamo smesso di illuderci e insieme avevamo visto crollare miti, ideologie e propositi rivoluzionari. Quindi, oggi, il minimo che possiamo fare è rispettare il suo modo di vedere, le sue disillusioni. Evitare quindi cose che suonano speculative, evitare analisi che lui non avrebbe fatto, evitare termini in cui non si riconosceva più, evitare inni alla rivolta di cui tutti conosciamo la falsità e la vuotezza.

Mauro Di Vittorio non è stato l’involontario kamikaze che ha fatto fuori sé, le altre vittime e che ha ferito 200 persone nel più grave degli attentati terroristici in Italia. Era un ragazzo che, a volergli apporre un’etichetta, lo si sarebbe definito un indiano metropolitano, capelli lunghi e barbone nero, in giro per l’Europa non per prendere parte a chissà quali attività eversive. Cercava di guadagnare da vivere per la famiglia dopo la morte del padre, e i soldi che metteva insieme li divideva anche con gli amici e con i compagni, come accaduto con Peppe, fermato a Friburgo intorno al 28 luglio 1980 per la metropolitana non pagata due anni prima a Monaco. Non si teneva a nulla, Mauro, al punto che, dopo essere stato respinto a Dover per le precarie condizioni economiche, aveva viaggiato verso Bologna, dove sarebbe stato ucciso dalla bomba, senza biglietto. E lo testimonia la contravvenzione che, dopo la sua morte, venne recapitata alla famiglia a Roma.
A Persichetti ha detto Gian Carlo Calidori, cognato di giovane, commentando l’insinuazione che Mauro avesse a che fare con la strage del 2 agosto:

Quest’accusa ci sta facendo vivere un’esperienza sgradevole, ma nonostante ciò continuiamo a confidare, come sempre, nelle Istituzioni della Repubblica Italiana.

Conclude la sorella Anna:

Nell’agosto del 1980 sono andata a Bologna. Ho visto il cadavere di mio fratello Mauro: era intatto; non carbonizzato; con una sola ferita, mortale, nel costato. Poi, ho incontrato la polizia ferroviaria che, molto umanamente, mi ha consegnato gli effetti personali di mio fratello, tra cui il diario di Mauro.

Al di là delle divergenze di opinione sul futuro del Manifesto, un giornale come questo deve continuare a vivere perché storie di questo tipo difficilmente altrove troverebbero posto.

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