Il Senato Accademico dell’Università di Bologna ha nominato gli otto componenti del Consiglio di Amministrazione di sua competenza (5 dipendenti dell’Alma Mater e tre esterni). Con questo atto si completa la formazione degli Organi di governo dell’Ateneo bolognese, formazione conseguente all’approvazione del nuovo Statuto, avvenuta alla fine del luglio 2011. Giova ricordare che il nuovo Statuto è stato emanato a seguito della cosiddetta riforma Gelmini dell’Università e a giudizio di chi scrive ne recepisce appieno la cifra tecnocratica e anti-repubblicana (in altri termini la sostanziale incostituzionalità, vedi a questo riguardo Roberta Calvano, Problemi costituzionali della riforma dell’Università di cui alla legge 240 del 2010, in “Diritto e Società”, 4, 2011, pp. 765-801).
Intervento di Maurizio Matteuzzi, professore di Filosofia del linguaggio dell’Università di Bologna
Ma la legge 240 e tutto quello che ne consegue, in pratica la privatizzazione e quindi l’aziendalizzazione e la gerarchizzazione dell’università, si inscrivono in un processo di lungo periodo che ha la sua origine negli stessi albori della Modernità.
“La mano nuda e l’intelletto abbandonato a se stesso servono poco. Per compiere le opere sono necessari strumenti e mezzi d’aiuto, sia per la mano he per l’intelletto; e come gli strumenti meccanici servono ad ampliare o regolare i movimenti delle mani, così gli strumenti mentali estendono o trattengono il movimento dell’intelletto.
La scienza e la potenza umana coincidono, perché l’ignoranza della causa preclude l’effetto, e alla natura si comanda solo ubbidendole: quello che nella teoria fa da causa nell’operazione pratica diviene regola”.
(F. Bacon: Novum organum)
Il capitalismo e il potere economico che ne consegue non tardano a cogliere la lezione baconiana. Con la rivoluzione industriale avviene una profonda trasformazione dei valori e del modo di sentire la “cultura”. In contrapposizione alla visione classica, radicata nella mentalità greco-latina, dominata dal disinteresse come valore fondante (si pensi all’espressione latina otium studiorum), si delinea, e si afferma sempre più decisamente, la categoria dell’utile. Dal punto di vista teorico, questa svolta trova una sponda forte nel pensiero pragmatista, e in specie nelle idee pedagogiche di J. Deway, con la valorizzazione della “formazione professionale”. Si affermano come predominanti figure di scienziato nuove, o che tradizionalmente occupavano un ruolo subordinato nella scala dei valori del sapere, come l’ingegnere e il medico. Nel sentire popolare contemporaneo, l’idealtipo dello scienziato è il medico; quando, da un punto di vista teorico-epistemologico, è viceversa del tutto legittimo persino dubitare che la medicina sia una scienza.
Dal punto di vista della storia della scienza, è rilevante notare che, in concomitanza con la prima rivoluzione industriale, nasce con Lavoisier la chimica in senso moderno, e va definitivamente in soffitta l’alchimia; il che aprirà di lì a poco lo sviluppo prorompente della farmaceutica.
La storia della istruzione italiana è in certa misura, nella prima metà del secolo scorso, anomala rispetto a questo processo. Agli inizi del secolo la cultura italiana occupa un posto di primo piano nella cultura scientifica, nelle matematiche, in fisica, nelle scienze della natura. La svolta avviene con il ventennio fascista, che fa propria senza esitazioni la visione neoidealista di Croce e Gentile. Ne deriva un drastico ritorno alla concezione che abbiamo definito greco-latina, il sapere fine a se stesso, la preminenza della cultura umanistica su ogni scienza ed ogni tecnica, il declassamento di ogni altro sapere a “pseudoscienza”. Si delineano così percorsi ben precisi, differenziati in termini di ceto, o di censo. Tra questi, si pensi al caso tipico per la classe dominante: la scuola media (allora non unificata), il liceo classico, il cui diploma non dà alcuna qualificazione per l’esercizio di una qualche professione, l’università. La mentalità che così si afferma è assai più duratura del regime, e possiamo dire che permea anche tutto il periodo del secondo dopoguerra.
Il fenomeno qui succintamente descritto, i cui effetti negativi sulla cultura scientifica italiana potrebbero tenerci occupati per un tempo indefinito, è tuttavia un caso per certi versi degenere di una esigenza peraltro del tutto positiva: la difesa della autonomia della cultura rispetto all’ambizione del potere economico di impossessarsene. Per i così detti “poteri forti” asservire alle proprie finalità la cultura in senso lato, e quella tecnico/scientifica in particolare, è un passaggio strategico. E questo passaggio non può che realizzarsi attraverso un progressivo processo di privatizzazione della funzione tradizionalmente dello stato. Un elemento che emerge dallo scorcio del secolo scorso a oggi è il proliferare di discipline direttamente legate al mondo della produzione: gestione aziendale, tecniche di marketing e così via. Per un altro verso, a parte rare eccezioni, i tentativi di costituire un sistema scolastico privato danno risultati deludenti, e l’istruzione pubblica rimane stabilmente di qualità più elevata di quella privata. Questo anche per due precise ragioni: per un verso quello spazio è da sempre fortemente presidiato dalla istruzione confessionale; per un altro, un’imprenditoria che è agli ultimi posti tra i paesi occidentali quanto a investimenti in ricerca e sviluppo, non ha alcuna intenzione di pagare il conto di una simile trasformazione.
La via obbligata che rimane è allora quella di impossessarsi sempre di più della “cultura” pagata dallo stato. Il discorso è particolarmente pregnante, ovviamente, in primis per l’università.
Questa ricostruzione storica, pur nella sua estrema sinteticità, è indispensabile per collocare entro un quadro politico più generale l’insorgere della così detta “riforma Gelmini”, la riforma definita dagli esponenti del centrodestra come “epocale”. Qui il ministro citato, sia detto per inciso, ha avuto in carico non più che la funzione di eponimo; non apparendo credibile una qualche consapevolezza del percorso storico di cui sopra. La struttura portante della riforma si forma entro la mentalità neoliberista, in primo luogo all’interno di Alleanza Nazionale (si pensi al ruolo svolto dal Sen. Valditara), ma con ampio consenso di una certa componente del Partito Democratico, a tuttora ben radicata, ancorché mascherata da una linea ufficiale formalmente di segno opposto. Schizofrenia politica che sicuramente avrà un costo non trascurabile.
Il disegno di lungo termine, quello che appartiene, come direbbe Chomsky, alla “struttura profonda” e non a quella di superficie, risulta dunque alle persone avvedute, o almeno dotate di buon senso, del tutto chiaro. Da qui è facile determinare una “lettura” della funzione della legge 240/10. Il primo passo deve essere, necessariamente, quello di concentrare il potere decisionale, e di indirizzo della ricerca, in poche mani. Costruire pertanto un luogo del potere monocratico. Il passaggio successivo sarà quello di occupare quei posti così creati nella cabina di regia. Il tutto va condito, ovviamente, e come sempre, con la dichiarazione di perseguimento di obiettivi nobili: lotta ai baroni, meritocrazia, and the like.
Dal punto di vista tattico, il primo passaggio passa per l’arruolamento di una certa schiera di personaggi utili e inconsapevoli, possibilmente di fede apparentemente “di sinistra”. Qui i Magnifici Rettori rappresentano il terreno di coltura ideale per la guerra batteriologica. Per narcisismo, magari in buona fede, o per l’enormità della propria autostima, i Rettori diventano il migliore alleato del processo. D’altra parte, dalle sirene delle dichiarate etichette del “premiare il merito”, del “favorire l’eccellenza”, e, non ultimo, dell’esercizio diretto ed efficiente del potere, quale Magnifico non si ritroverebbe realizzato?
Ecco dunque spiegato il nuovo assetto: introduzione di meccanismi decisionali totalmente antidemocratici; consigli di amministrazione onnipotenti, e di stretto servilismo al potere rettorale; struttura estremamente verticistica e baronale del potere; permeazione di ogni processo decisionale della visione aziendalistica.
La dimensione della scelta culturale in quanto tale appare svilita e impraticabile. Tu, docente, vali quanto guadagni: e, per stare sul sicuro, insegnante idealista, ti abbasso la paga. Così vali meno, quasi niente. Altro sono i notai e i magistrati, tu devi solamente trasmettere un sapere, meglio, una tecnologia, per persone direttamente utilizzabili in “azienda”; chissenefrega di te.