Che lingua parla la politica militante?

di Fabio Ciancone /
2 Novembre 2025 /

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Come ci chiamiamo? Come vogliamo essere chiamati? Quali parole ci vengono imposte, e di quali ci possiamo riappropriare? Una riflessione a partire dall’Abbecedario dei Soulèvement de la Terre.

Il 25 marzo 2023, sui terreni agricoli nei pressi del piccolissimo comune di Sainte-Soline nell’Ovest della Francia, quasi trentamila manifestanti si sono scontrati con tremiladuecento gendarmi e poliziotti francesi. La “battaglia di Sainte-Soline” è stata il culmine di due anni di proteste del movimento dei Soulèvement de la Terre. La manifestazione, non autorizzata dal governo, contestava la costruzione di un megabassine, uno dei duecento bacini idrici, grandi fino a diciotto ettari, voluti dalla grande industria agricola francese per garantirsi le riserve d’acqua durante i mesi di siccità.

Il progetto, tuttora in fase di attuazione, rischia di avere effetti devastanti sull’agricoltura: i megabassines raccolgono acqua drenandola dalle falde durante l’inverno e, di conseguenza, danneggiandole; sono costruiti allo scopo di irrigare le colture intensive, specie quelle del mais, che richiedono un volume di acqua superiore a quella naturalmente garantita dai cicli stagionali; fanno l’interesse esclusivo della grande industria e sono progettati senza tenere conto della volontà di chi abita quei territori.

Il dispiegamento di forze di polizia quel giorno era enorme, la loro dotazione di armi adatta a una vera e propria guerriglia: elicotteri, equipaggiamenti antisommossa, veicoli blindati, cannoni ad acqua, granate. Centinaia di manifestanti sono stati feriti, alcuni in modo grave, altri gravissimo. Venti persone sono state mutilate, due sono finite in coma. Dopo la battaglia, i Soulèvement de la Terre sono stati sciolti dal ministro dell’interno Gérald Damarnin e dichiarati illegali.

Nato in Francia nel 2021 per contestare le politiche ambientali ed energetiche del governo Macron e, più in generale, per manifestare in favore di un nuovo modello sociale ed economico attorno alle questioni che riguardano l’ecologia, lo sfruttamento del suolo, l’accumulo di risorse e di materie prime, il movimento riunisce militanti e agricoltori locali e raccoglie la solidarietà di altri gruppi nazionali ed esteri. Tra il 2021 e il 2023 i Soulèvement de la Terre hanno organizzato cortei, presidi, azioni di sabotaggio a grandi impianti e siti di estrazione di materie prime, subendo la progressiva repressione del governo francese.

In risposta ai fatti del marzo 2023 è stato pubblicato On ne dissout pas un soulèvement (“Non si scioglie una rivolta”), tradotto per Orthotes da Giovanni Fava e Claudia Terra con il titolo Abbecedario dei Soulèvement de la Terre alla fine del 2024. L’Abbecedario è una raccolta di trentotto brevi interventi di militanti dei Soulèvement e dei movimenti solidali. Ogni testo è scritto a partire da una parola chiave: disposte in ordine alfabetico, le parole formano una costellazione di posizioni e analisi politiche, fino a comporre il manifesto del movimento stesso. Leggere l’Abbecedario permette di riflettere su quali sono le questioni pratiche e urgenti che i cambiamenti climatici ci imporranno di risolvere nell’immediato; su come si organizza la resistenza a scelte politiche che perpetrano un sistema economico insostenibile; sull’uso del linguaggio in politica, specie laddove non si ha a che fare con questioni particolari o identitarie, ma collettive e strutturali.

Partiamo dall’ultima questione. Come dicevamo, l’Abbecedario riunisce interventi eterogenei, tanto nella forma quanto nei contenuti: la Confédération paysanne, una confederazione di sindacati che tutelano il lavoro di piccoli agricoltori, firma la voce “Contadine e contadini”; il collettivo di scienziati Scientifiques en rébellion scrive di “Urgenza climatica”; gli antropologi Philippe Descola, titolare della cattedra di antropologia al Collège de France, e Eduardo Viveiros de Castro, professore universitario a Rio De Janeiro, parlano di “Accaparramento” e “Indigeno”; la direttrice delle ricerche al CNRS di Montpellier Virginie Maris firma “Ecofemministe”.

Questo elenco parziale rende l’idea della varietà non solo di temi – il manifesto tiene insieme questioni architettoniche, sociali, geologiche, ambientali – ma anche delle molte soggettività che compongono il movimento. Proprio nella “composizione” sta il farsi soggetto collettivo dei Soulèvement de la Terre: l’Abbecedario non sintetizza né distingue le varie posizioni, le fa coesistere e le tiene insieme. Al fondo di ogni testo, la formula “cfr. anche” rimanda ad altri due o tre interventi nello stesso libro. In questo modo, l’Abbecedario si può leggere sia in ordine alfabetico sia per connessioni tematiche, attraversando la rete di posizioni che forma l’impalcatura teorica del movimento.

Che lingua parla, o deve parlare, la politica militante? È una questione di enorme importanza, se si tiene conto della strutturale subalternità che i movimenti sociali di sinistra hanno in relazione all’opinione pubblica, non tanto per le proposte in sé, spesso largamente condivisibili e condivise, anche inconsciamente, da moltissime persone, quanto per la loro immagine, per la narrazione, l’idea che se ne costruisce nel dibattito. L’Abbecedario contiene molti registri diversi. In alcuni passaggi, ad esempio, la lingua è assertiva, quasi imperativa:

Continuare a fare ciò che conosciamo, fare l’inventario dei siti in cui sono previsti progetti distruttivi. Rafforzare i nostri legami con gli avvocati. Supportare la rete di associazioni militanti. Denunciare gli abusi della società di consulenza. Politicizzare le nostre camminate nella natura. Diffondere le pratiche naturalistiche. Federare le comunità umane e non umane. Disertare. Insediarsi in campagna.

Il brano è contenuto nel capitolo “Naturalistes de Terre”, la lista dei comandamenti prosegue ancora. Allo stesso tempo, la lingua sa essere immaginifica, creativa, ironica, come nella “Ricetta per le mense militanti”:
Per cominciare bene, portare a ebollizione in un’assemblea generale gli addetti e le addette alla mensa per organizzare la giornata di cucina […]. Raggiunto il bollore, non dimenticate di creare una squadra d’attacco di lavaggio stoviglie e un’équipe per lo spuntino. Una volta emulsionata a puntino, l’équipe parteciperà alla manifestazione e rifornirà i manifestanti nel cuore dell’azione, in modo che tutte e tutti possano recuperare le forze.

In alcuni capitoli si citano dati e percentuali, alcuni contengono persino note con riferimenti bibliografici, in altri si lascia spazio alle metafore e alle costruzioni allegoriche. I campi semantici più ricorrenti riguardano la natura (“essere albero”, “avere radici”, “ramificare”, “creare/appartenere a ecosistemi”), o il corpo, ad esempio nel rapporto chimerico tra corpo umano e suolo o tra uomini e animali non umani: “Avere cura delle lotte significa curare le nostre interdipendenze e le nostre co-affezioni attraverso personificazioni-chimere, come uomo-anguilla-fiume o umano-tritone-prato”; “Siamo l’Acqua che si difende e siamo pronti a sommergervi”. La Terra stessa è personificata in “Gaia”, nome che rimanda a un’idea armoniosa del rapporto tra uomo e natura. Non manca, ovviamente, il campo semantico del conflitto: le grandi opere si “disarmano”, le azioni di sabotaggio dei cantieri si fanno per “autodifesa”, le risorse naturali sono terreno di “conquista”.

Che la lingua sia un campo di battaglia politica, un dispositivo attraverso cui si stabiliscono le appartenenze, si delimitano i confini dell’identità, si tracciano le linee di inclusione ed esclusione, è ormai un dato evidente a chiunque. Più sotterraneo, per ora, è l’uso che si fa della lingua quando si ha a che fare con questioni sociali. Sempre più repressivo è l’uso dei termini che identificano i manifestanti politici: qualcuno saprebbe definire chiaramente chi sia oggi per la legge italiana un “terrorista”? Ogni parola usata nel discorso politico è oggetto di contesa: dire “ecologista”, “militante”, “resistente”, “attivista” non è mai neutro, è una scelta di campo.

Anche in Italia il vocabolario istituzionale che definisce le forme di dissenso è sempre più vago e opaco, e proprio per questo sempre più pericoloso. Categorie giuridiche nate in contesti storici completamente differenti – pensiamo alla nozione di “associazione sovversiva con finalità di terrorismo” – vengono oggi applicate a gruppi ambientalisti o a reti di movimento che contestano infrastrutture fossili, come i rigassificatori o i metanodotti. Il concetto stesso di terrorismo viene stirato, piegato, fino a includere chiunque eserciti un conflitto non autorizzato, chiunque pratichi una forma di opposizione fuori dai canali istituzionali. Il problema, allora, è anche semantico: è nel potere di chi assegna i nomi. Se la narrazione istituzionale è capace di imporre un’etichetta, può cancellare la complessità, fino a devitalizzare il conflitto e a evitare ogni confronto.

In questo contesto, la riflessione linguistica diventa una questione politica primaria. Come ci chiamiamo? Come vogliamo essere chiamati? Quali parole ci vengono imposte, e di quali ci possiamo riappropriare? La battaglia non si gioca solo nelle piazze o nei tribunali, ma anche nei modi in cui parliamo delle piazze e dei tribunali. E anche nei modi in cui parliamo tra di noi. Per questo l’Abbecedario è un oggetto prezioso: perché costruisce una lingua comune senza imporla. Perché mostra che si può parlare da posizioni diverse, con stili diversi, ma in una stessa direzione, rompendo la gerarchia tra chi pensa e chi agisce, tra chi scrive e chi lotta.

Il fatto che l’Abbecedario dei Soulèvement de la Terre sia stato scritto dopo Sainte-Soline indica che non si tratta di un programma d’azione, ma del tentativo di capire retroattivamente – con le parole e le forme del pensiero – ciò che era già stato fatto. Prima il corpo, poi la lingua; prima l’urto, poi la sintassi. Se la politica dei Soulèvement ha avuto nella presenza fisica, nella disobbedienza, nel gesto collettivo la sua prima articolazione, è soltanto dopo lo scontro che si è resa necessaria la costruzione di una grammatica. L’intelletto viene a posteriori, come forma di sedimentazione, e non come architettura previa. Questo sovvertimento delle logiche tradizionali del pensiero militante è forse la chiave più potente dell’Abbecedario: l’azione non è giustificata dalla teoria, ma la precede. E la teoria non ha lo scopo di spiegare, ma di accompagnare. Non è una strategia, è una cura.

In questo senso, l’Abbecedario non è un libro che prepara alla lotta: è il libro che resta dopo la lotta. E proprio per questo è tanto più prezioso per chi lotta oggi, altrove. Perché offre un esempio, non un modello. Perché si può prendere, leggere, copiare, piegare, adattare. E perché contiene una forma di intelligenza collettiva che non si propone come verità, ma come gesto in comune. In un tempo in cui la repressione del dissenso si fa ogni giorno più pervasiva, anche in Italia, e in cui la distanza tra il gesto politico e la sua rappresentazione pubblica è abissale, l’Abbecedario diventa un oggetto strano e vitale. Una forma di sapere che non pretende egemonia, ma relazione.

Se oggi chi dissente in modo organizzato – che si tratti di studenti, attivisti per il clima, operai o lavoratori della cultura – viene schedato, manganellato, perquisito, accusato di terrorismo, allora ogni parola è già azione, ogni linguaggio condiviso è già una forma di resistenza, e la pluralità di registri dell’Abbecedario rispecchia la molteplicità delle condizioni in cui oggi il dissenso prende corpo: università, assemblee cittadine, campagne, festival, accampamenti, piazze occupate, reti sindacali, collettivi scientifici.

Questa traiettoria – dall’azione al pensiero, dalla militanza al discorso – è visibile anche altrove. Nel lavoro teorico di Andreas Malm, ad esempio, l’urgenza dell’azione contro il cambiamento climatico è posta in forma dialettica con il pensiero marxista. Come far saltare un oleodotto, pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie nel 2023, è forse l’esempio più esplicito di come oggi la teoria non possa più restare neutra, e non possa più limitarsi a descrivere il mondo senza prendere parte alle sue trasformazioni. Malm, come i Soulèvement, parla delle azioni di sabotaggio (meglio dire “disarmo”) delle grandi opere come strumento essenziale di lotta climatica e della “violenza” contro i grandi soggetti industriali come l’unica via per contrastare un sistema iniquo. Così facendo, l’autore costruisce una giustificazione teorica per gesti che il sistema giuridico classifica come criminali. E che invece, nella logica del collasso ambientale, sono azioni di tutela della vita.

La tutela dell’acqua pubblica, il contrasto alla siccità, l’abbandono di un modello produttivo iniquo sono questioni che non possiamo più ignorare né sminuire. D’altronde, sono moltissimi gli esempi di letteratura in proposito, persino troppi in relazione a quanto effettivamente viene fatto dalla politica. È inquietante, non devo essere io a notarlo ed è persino banale ripeterlo, la discrasia tra quanto sappiamo e quanto facciamo in merito alla tutela del nostro ecosistema e degli altri che contribuiamo a invadere o a distruggere.

Il filosofo giapponese Saito Kohei, nella sua ultima rilettura di successo del Capitale, pubblicata in Italia da Einaudi, propone un ecomarxismo della decrescita, vedendo nella rinuncia alla crescita per come è comunemente intesa in Occidente l’unica possibilità di liberazione. Anche in questo caso il discorso si fa politico non perché descrive una struttura, ma perché disegna un’alternativa. Un’ipotesi concreta, capace di parlare non solo agli attivisti ma anche ai cittadini, ai lavoratori, a chi subisce la crisi climatica senza strumenti per interpretarla. La teoria non può più essere la premessa dell’azione: deve essere la sua eco. E proprio come un’eco, portare con sé la memoria del gesto e allo stesso tempo la sua trasformazione. È un gesto che si riflette, si moltiplica, si adatta ai contorni di chi ascolta.

Questo articolo è stato pubblicato su Il Tascabile il 30 ottobre 2025

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