La bomboniera occidentale nella crisi del capitalismo contemporaneo

di Fortunato Stramandinoli /
21 Ottobre 2025 /

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Il sistema capitalistico, produttivo, economicamente espansivo, è in crisi. Lo sappiamo e lo vediamo da tempo. Chi più, chi meno, denuncia ed ha chiaro che il sistema produttivo ha innescato un colpo di coda, particolarmente deplorevole, avviando quella che a tutti gli effetti è la prospettiva, sempre più attuale e reale, dell’economia di guerra come elemento che riesca a mantenerlo vivo e vegeto. Sono già in atto le trasformazioni, parziali o totali, di settori industriali verso la produzione di elementi bellicistici. Un cambio di paradigma totale che rischia di trascinare un pezzo non irrilevante di popolazione globale verso la convinzione che da un lato serva la forza bellica per garantire la sicurezza di tutti e dall’altro che quella stessa forza bellica sia l’elemento che garantisce il mantenimento dello status quo occidentale, l’elemento che mantiene la ricchezza minima diffusa (percepita più che reale). Un passo indietro culturale di diversi decenni. 

Come se non bastasse, strettamente collegata con questa logica, viene avanti la necessità, per quel sistema e per la classe dirigente che lo sostiene, di costruire sempre con più consapevolezza e velocità quella che sarebbe a tutti gli effetti una specie di zona di confort per il livello alto del capitalismo: la bomboniera occidentale. 

Prendiamo ad esempio ciò che potrebbe verificarsi a Gaza e sul territorio palestinese; appare sempre più chiaro che la volontà, neanche troppo nascosta, di chi sta “costruendo la pace” in quei territori, sia quella di immaginare e provare a costruire un territorio “neutro”, potenzialmente al servizio di un sistema economico “turistico” mantenuto dalla cosiddetta fascia turistica alta; tutto questo senza che, al momento, al tavolo della pace e quindi della ricostruzione di un territorio e un popolo massacrato, quello stesso popolo si possa sedere per discutere del proprio futuro imminente.  

Pare quindi che le potenze Occidentali si preparino a costruire, in nome della pace, appunto, un territorio neutro, una “bomboniera” all’interno della quale, magari, quel popolo che avrebbe tutti i diritti di vivere il “suo” spazio vitale, vada infine a svolgere il ruolo della manodopera utile al sistema economico turistico, che in questo modo garantisce non solo la pace ma anche quel minimo di restituzione economica che gli permetterebbe di vivere con quel minimo di dignità, strettamente economica. 

Niente di molto diverso, se non per il genocidio che si protrae verso il popolo palestinese da decenni e che ha subito una fortissima accelerazione in questi ultimi 2 anni, rispetto a come si prospettano sempre più località, interi paesi, porzioni di territori, nel resto dell’Occidente e non solo. 

Potremmo quindi essere davanti alla volontà da parte dell’Occidente di trincerarsi dentro ad una macro zona di interesse, pacifica ed acquistabile, ad uso e consumo del cosiddetto livello alto del capitalismo, dove la pace presuppone l’accettazione da parte di tutti gli altri attori coinvolti, in particolare della popolazione che vive quei territori, della loro trasformazione in soggetti testimoni dello sperpero ai fini economici e finanziari e che, come sempre, non restituisce loro nulla se non le briciole necessarie alla sopravvivenza. 

Ma in tutto questo scenario, l’Occidente siamo noi.  

E se l’Occidente siamo anche noi, come possiamo accettare senza colpo ferire uno scenario di questo genere? Abbiamo visto quanto siamo noi che, restando sulla questione palestinese, siamo riusciti a generare e mantenere alta la pressione politica con le mobilitazioni, con la presa di coscienza su ciò che stava realmente accadendo; in barba a tutte le strumentalizzazioni possibili e immaginabili che ancora oggi vengono avanti, declinate con sempre maggiore assurda convinzione da tutti coloro che sostengono il sistema egemone e che si iscrivono alla destra politica (e a volte non solo).   

Se abbiamo compreso che quel sistema va superato perché è sempre più chiaro che non può essere sostenibile, non possiamo in alcun modo stare silenti e non provare a ragionare e costruire una via d’uscita, un cosiddetto “esterno”, che abbia al centro il rispetto della dignità umana, così come quella della terra che ci ospita e dei popoli che la abitano, l’esigenza e l’urgenza di costruire uguaglianza sociale e non livelli che confliggono per la propria sopravvivenza.  

È sempre più urgente quindi immaginare un nuovo presente, è sempre più necessario avviare un dibattito culturale generale che abbia l’obiettivo primario di mettere a fuoco la realtà odierna e che sappia indicare una prospettiva diversa da quella che, forse oggi più che mai, appare chiaro non possa assolutamente essere l’unica strada percorribile. 

Un nuovo presente e soprattutto un nuovo futuro, non può essere un ritorno al passato, ma ha bisogno di essere costruito assieme alla realtà quotidiana e con una prospettiva inedita rispetto a ciò che sono stati finanche i fondamenti che ci hanno fatto vivere ed attraversare il secolo scorso.  

È un’urgenza reale e prioritaria che sta a noi tutte e tutti coltivare e mettere in atto. 

Non è la cosa più semplice da fare ma va fatta se vogliamo davvero essere protagonisti della realtà; c’è una nuova generazione pronta e che ha bisogno di una prospettiva nuova e diversa, perché quella di oggi non è una prospettiva. 

Immaginiamola insieme e iniziamo a farlo il prima possibile, perché avremo bisogno di tempo e pratiche che riescano a dimostrarne la bontà e la fattibilità.  

Organizziamoci e diamo vita ad una “primavera di pensieri”, iniziamo a confrontarci almeno a livello regionale, proviamo a strutturare e dare corpo e voce ad una nuova prospettiva che abbia al centro la necessità e l’urgenza di immaginare un nuovo futuro. Noi ci siamo! 

Fortunato Stramandinoli è segretario di Sinistra Italiana – Emilia Romagna

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