Sulla Gazzetta ufficiale del 3 ottobre 2025 è stato pubblicato il testo della legge delega 26 settembre 2025 n. 144, recante, tra l’altro, norme in materia di retribuzione dei lavoratori e di contrattazione collettiva. L’art. 1 della legge, dopo avere enunciato nel primo comma le finalità dell’intervento normativo (cioè quelle di assicurare ai lavoratori “trattamenti giusti ed equi” e di “contrastare il lavoro sottopagato”), fissa nel suo secondo comma criteri direttivi abbastanza aperti, che lasciano ampi poteri di manovra all’esecutivo. Bisognerà pertanto attendere i decreti delegati – che dovranno essere emanati entro sei mesi – per formulare un giudizio complessivo, anche se qualcuno dei criteri direttivi merita di essere da subito commentato, perché pone interrogativi molto seri sui futuri sviluppi del diritto sindacale nel nostro Paese.
La genesi della legge e il complesso e tormentato iter parlamentare che l’ha partorita, avevano destato più di qualche inquietudine circa la reale volontà del Governo. L’Esecutivo aveva già infatti a disposizione una delega legislativa per intervenire in materia di trattamenti retributivi: quella conferitagli dalle Camere per l’attuazione della direttiva UE 2041/2022 relativa ai salari minimi adeguati, ma aveva deciso di lasciar scadere i termini per emanare i relativi decreti delegati, dichiarando esplicitamente che l’ordinamento italiano era già conformato alla Direttiva, posto che, nel nostro Paese, la copertura offerta dalla contrattazione collettiva sarebbe superiore all’80% fissato dalla Direttiva stessa. La sensazione generale fu che la maggioranza, dichiaratamente contraria ad introdurre un salario minimo per legge, fosse intenzionata semplicemente a non fare nulla. Quella sensazione invece si è rivelata del tutto errata, perché nella realtà il Governo stava già realizzando un disegno ben diverso e più ambizioso rispetto a quello di difendere semplicemente lo status quo. L’esecutivo, infatti, nell’autunno del 2023, aveva di fatto “scippato” la proposta di legge sul salario minimo presentata dalle opposizioni all’esame della Camera (sottoscritta da tutti i leader dei maggiori partiti di opposizione), facendo passare un emendamento totalmente soppressivo di quelle norme e sostituendole con una delega legislativa, delega approvata dapprima alla Camera ed ora definitivamente divenuta legge dello Stato. Vane sono state le proteste dell’opposizione, che ha parlato di legge truffa, e ha avuto una valenza purtroppo soltanto simbolica il gesto del ritiro delle firme da parte dei proponenti dell’originaria proposta di legge, ormai del tutto snaturata. L’iter parlamentare ora si è concluso e quindi ormai appare chiaro che con questa legge e i relativi decreti delegati bisognerà fare i conti.
Nel frattempo, peraltro, è autorevolmente intervenuta la Cassazione con sei sentenze dell’ottobre 2023 sull’art. 36 Costituzione, nelle quali è stata delineata la nozione di salario minimo costituzionale, inderogabile dalla contrattazione anche se stipulata dalle organizzazioni sindacali più rappresentative. E con i principi enunciati in queste sentenze dovranno necessariamente fare a loro volta i conti sia il legislatore delegato che le parti sociali. Il quadro complessivo è, insomma, assai complicato e si aprono scenari non ancora del tutto prevedibili.
La proposta di legge sul salario minimo presentata unitariamente dall’opposizione si fondava sui seguenti pilastri fondamentali: a) definiva in modo certo e cogente il trattamento economico che realizza il precetto dell’art. 36 Costituzione, stabilendo che non potesse essere comunque inferiore a quello previsto dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, ed estendeva in qualche misura tali garanzie anche ai lavoratori autonomi; b) prevedeva, a ulteriore garanzia del riconoscimento di una giusta retribuzione una soglia minima inderogabile in allora fissata in 9 euro l’ora, rivalutabili annualmente in base a un meccanismo che prevedeva anche il coinvolgimento delle parti sociali; c) garantiva l’ultrattività dei contratti scaduti o disdettati; d) introduceva un’apposita procedura giudiziaria, ispirata all’art. 28 dello Statuto dei Lavoratori. volta a garantire l’effettività del diritto a godere di un trattamento dignitoso.
La legge delega in esame, invece, adotta principi direttivi del tutto differenti. La prima cosa che balza all’occhio è la mancata fissazione di una soglia minima inderogabile, sotto la quale i contratti collettivi non possono scendere. La questione è di fondamentale importanza, perché la fissazione di un minimo inderogabile rappresenterebbe un sostegno – e non certo un ostacolo – alla contrattazione collettiva nei settori di sua maggior debolezza. Secondo il progetto delle opposizioni, il salario minimo era pur sempre quello stabilito dai contratti stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, che quindi vedevano pienamente salvaguardato il proprio ruolo di autorità negoziale, ma la soglia minima costituiva un limite invalicabile anche in quei settori in cui il dumping dei contratti “pirata” spingeva verso un ribasso incontrollato ovvero in quelle situazioni nelle quali il mancato rinnovo dei contratti era ormai diventato la regola rendendo col tempo inadeguati salari che un tempo non erano tali. Un impianto, peraltro, che aveva il pregio di essere in piena sintonia con le sentenze della Suprema Corte dell’ottobre 2023, e quindi con l’esigenza di rendere effettivo il principio del salario costituzionale.
Ma non è soltanto la mancanza di ogni riferimento a una soglia minima inderogabile a destare preoccupazione. Anzi, appare ancor più grave un altro punto della legge delega, e cioè quello secondo il quale il trattamento economico minimo ex art. 36 Costituzione diventa quello stabilito dai “contratti collettivi nazionali di lavoro maggiormente applicati”. Nella legge delega scompare ogni riferimento alla nozione di contratti stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, che viene sostituito con quest’ultima locuzione. La scelta politica compiuta non è certo casuale ed è pericolosissima per il futuro assetto delle relazioni industriali nel nostro Paese. Com’è noto, infatti, il sistema di libertà sindacale delineato dall’art. 39 Costituzione consente al datore di lavoro di aderire a qualsiasi organizzazione imprenditoriale o di non aderirvi affatto, e quindi di applicare alla fine il contratto collettivo nazionale che più gli aggrada. Ed è fin troppo facile prevedere che molti imprenditori finiranno per scegliere il contratto meno oneroso, che con l’andar del tempo potrà divenire quello maggiormente applicato. Con il risultato che i contratti “pirata” in qualche caso diventeranno i contratti “leader”, e quelli sottoscritti dai sindacati più rappresentativi finiranno per diventare quelli meno diffusi in molte realtà produttive. Ciò rappresenta un vulnus gravissimo al nostro sistema di relazioni sindacali e un attacco diretto ed insidiosissimo alla democrazia sindacale.
Invece di pensare seriamente a una legge sulla rappresentanza, si è scelta la diversa strada di legittimare la giungla dei contratti collettivi, formalizzando alla fine, più che il principio di effettività, quello della legge del più forte. Non è del resto certo un caso se già da tempo operano società di consulenza che si occupano di indirizzare le imprese verso i contratti collettivi complessivamente più favorevoli per i loro interessi. Se lo scenario delineato nella legge delega dovesse verificarsi, con una ulteriore discesa dei salari determinata da fenomeni di dumping contrattuale (che nelle parole si vuole contrastare, ma di fatto si finisce per incentivare), è chiaro che lo strumento per contrastarlo diverrà il contenzioso giudiziario. Le sei sentenze della Suprema Corte dell’ottobre 2023, che fissano la nozione di salario costituzionale, offrono un presidio solido per rivendicare l’adeguamento dei salari che non dovessero garantire ai lavoratori e alle loro famiglie una esistenza libera e dignitosa.
Altro aspetto assai discutibile della legge delega è il principio direttivo riguardante lo sviluppo della contrattazione di secondo livello. La norma testualmente afferma che, nell’individuare strumenti volti a favorire il progressivo sviluppo della contrattazione di secondo livello “con finalità adattative”, questi debbano “fare fronte alle esigenze diversificate derivanti dall’incremento del costo della vita e correlate alla differenza di tale costo su base territoriale”. È fin troppo evidente il fatto che con questa formulazione il legislatore si proponga, oltre che di indebolire la contrattazione nazionale, anche di riesumare le famigerate “gabbie salariali”, spazzate via dalle lotte sindacali nell’autunno caldo e definitivamente scomparse, senza rimpianti, nel 1972. Ciò è del tutto inaccettabile, in considerazione del fatto che, nel corso di questi decenni, la contrattazione di prossimità ha avuto uno sviluppo notevole, soprattutto a livello aziendale, con la previsione di innumerevoli meccanismi premiali, sia di carattere retributivo che di welfare, legati ad indici di produttività e non a fattori geografici e territoriali. Non si comprendono pertanto le ragioni della scelta del legislatore, che può essere stata determinata solo da una pregiudiziale e ingiustificata ostilità nei confronti del Mezzogiorno e di altre aree depresse anche del Centro Nord. Il risultato non potrebbe che essere quello di accentuare ulteriormente le già rilevanti divaricazioni economiche esistenti, con grave danno per l’intero Paese.
Si può pertanto concludere che la legge delega è molto pericolosa e andrà contrastata dalle organizzazioni sindacali. È, infatti, facile prevedere che, se attuata, non realizzerà gli obiettivi dichiarati di assicurare ai lavoratori “trattamenti giusti ed equi” e di “contrastare il lavoro sottopagato”, ma, con ogni probabilità, sortirà l’effetto esattamente opposto, e il fenomeno del lavoro povero che già dilaga in Italia si estenderà in maniera sempre più drammatica.
Questo articolo è stato pubblicato su Volere la luna il 14 ottobre 2025