Quattro pagine di decreto legge e sette di ricorso in Cassazione contro le decisioni del tribunale civile di Roma. Sta qui la contromossa del governo alle non convalide dei trattenimenti dei richiedenti asilo deportati la scorsa settimana nei centri in Albania.
Il dl, a quanto dicono le bozze circolate ieri, rende norma primaria la lista dei paesi sicuri, ridotta a 19 Stati per l’eliminazione di Camerun, Colombia e Nigeria. Prima era contenuta in un decreto interministeriale, dunque di rango inferiore. Per gli esperti cambia poco, resta vincolante la recente sentenza della Corte Ue del Lussemburgo. Viene poi introdotta la possibilità che l’efficacia del provvedimento impugnato sia sospesa su istanza di parte, regolando il deposito delle note difensive di Viminale e ricorrenti.
SOPRATTUTTO, il nuovo decreto inserisce la Corte d’appello tra tribunale civile e Cassazione. Il reclamo non sospende l’esecutività della decisione di primo grado, ma i giudici del secondo dovranno pronunciarsi in dieci giorni con efficacia immediata. È forse da questa modifica che il governo conta di ottenere dei risultati, magari sperando che le Corti d’appello ribaltino le sentenze delle sezioni specializzate in immigrazione che a Palermo e Catania, per i centri siciliani, e Roma, per le strutture in Albania, hanno bocciato la detenzione di massa dei richiedenti asilo originari di «paesi sicuri». Per farlo dovrebbero in primo luogo adottare una diversa interpretazione della sentenza europea e poi delle direttive «procedure» e «accoglienza». Le norme comunitarie in vigore fino al giugno 2026, quando saranno sostituite dai regolamenti del Patto Ue su immigrazione e asilo. Uno di questi è esplicitamente «considerato» dal dl. Ma è un’escamatoge, se non un grave errore. «Prima di giugno 2026 quel regolamento non è applicabile. Senza dubbio vale la normativa attuale», spiega Chiara Favilli, ordinaria di diritto Ue presso l’università di Firenze.
Tornando alla decisione dei giudici del Lussemburgo, che rappresenta solo uno dei problemi sulla via dell’Albania, il pensiero del governo è scritto nel ricorso per Cassazione depositato dall’avvocatura dello Stato su mandato del Viminale. L’idea è che i giudici romani abbiano «travisato il contenuto e la portata della sentenza della Corte di giustizia Ue». Perché si concentra sull’illegittimità di escludere porzioni di territorio nella valutazione di sicurezza di un paese e non, invece, sulle eccezioni che riguardano categorie di persone. In pratica direbbe che negli elenchi nazionali degli Stati sicuri non è legittimo inserire quelli per cui tale aggettivo non vale in tutta l’estensione geografica, mentre resterebbe possibile quando sono escluse determinate categorie di persone. Per esempio oppositori politici, avvocati, giudici, persone lgbtqi+, etc. Ciò a maggior ragione del fatto che i richiedenti asilo di Bangladesh ed Egitto usati come cavie per il progetto albanese non hanno sollevato questo tipo di circostanze nei loro casi individuali.
L’ARGOMENTO, PERÒ, è debole. È vero che, a livello letterale, la sentenza si concentra sul territorio, in virtù del perimetro del rinvio pregiudiziale avanzato da un tribunale ceco sul caso di un cittadino della Moldavia (che non controlla la regione della Transnistria). Il ragionamento del massimo tribunale europeo, però, è ben più denso e argomentato. Il guardasigilli Carlo Nordio ha insinuato che i magistrati capitolini non abbiano compreso la sentenza in francese, ma deve essere lui ad aver perso un passaggio fondamentale, quello contenuto al punto 65. Qui la Grande camera della Corte Ue, una sorta di Sezioni unite della Cassazione, spiega che secondo una giurisprudenza costante bisogna valutare «contesto», «obiettivi perseguiti» e «genesi» delle norme comunitarie. Siccome la possibilità di considerare sicure soltanto parti di paesi era presente nella direttiva del 2005 ma è stata eliminata da quella che l’ha sostituita nel 2013 è evidente che il legislatore volesse escludere tale possibilità. E lo stesso ha fatto con le eccezioni relative alle categorie di persone. Sul tema specifico è pendente un altro rinvio pregiudiziale in Lussemburgo, del tribunale di Firenze. Difficile abbia un esito diverso.
Anche il terzo punto della sentenza smentisce seccamente le dichiarazioni politiche degli esponenti del governo italiano fatte in questi giorni, da Nordio al sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, rispetto al potere dei giudici di verificare concretamente quali paesi sono sicuri e quali no, al di là di ciò che stabiliscono i decreti. Non solo possono farlo, ma devono farlo. In gioco ci sono diritti fondamentali della persona.
DEL RESTO, in questa vicenda come non mai, le prese di posizione pubbliche degli esponenti della maggioranza lasciano il tempo che trovano. Per esempio la premier Giorgia Meloni ha sostenuto che se i paesi non sono «sicuri» non è possibile effettuare i rimpatri. Falso. Basta guardare i report ufficiali, come quelli del precedente collegio del Garante nazionale dei detenuti sui rimpatri forzati nel 2023: contengono numeri sia per l’Egitto che per il Bangladesh, che allora non erano considerati «sicuri».
Ancora Nordio ha poi sostenuto che i giudici non hanno il potere di disapplicare le norme primarie ma, eventualmente, solo di chiamare in causa la Consulta con un rinvio. Era la stessa cosa che diceva Mantovano sulle non convalide, per disapplicazione della normativa nazionale, dei trattenimenti dei richiedenti nel centro di Modica-Pozzallo firmate nell’autunno dell’anno scorso dalla giudice Iolanda Apostolico. Poi quei provvedimenti sono finiti davanti alle Sezioni unite che sul punto nulla hanno eccepito. Anzi, rispetto al merito hanno chiesto l’intervento della Corte Ue. In quel caso, dopo una modifica normativa, il Viminale ha ritirato i ricorsi. Vedremo come andrà a finire questa volta.
Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 23 ottobre 2024