Negli anni cinquanta, quando era adolescente e viveva in Maryland, Mary Allen Wilkes non immaginava di diventare una pioniera dell’informatica. Il suo sogno era fare l’avvocata civilista. Ma un giorno del 1950 la sua insegnante di geografia delle medie la sorprese dicendo: “Mary Allen, da grande dovresti fare la programmatrice di computer”. Wilkes non aveva idea di cosa facesse una programmatrice, e non era neanche tanto sicura di cosa fosse un computer. Pochissimi statunitensi lo sapevano. I primi computer erano apparsi solo una decina d’anni prima nei laboratori delle università e del governo.
Quando nel 1959 si laureò al Wellesley college, in Massachusetts, Wilkes sapeva già che il suo sogno di diventare avvocata era irrealizzabile. Tutti i professori le ripetevano la stessa cosa: non provare neanche a fare domanda per iscriverti a giurisprudenza. “Lascia perdere”, le dicevano, “non entreresti mai. Anche se ce la facessi, non riusciresti a laurearti. E anche se ti laureassi, non troveresti mai un lavoro”. Dicevano che se alla fine avesse avuto la fortuna di laurearsi e di trovare un impiego, non avrebbe mai potuto discutere dei casi in tribunale. Molto probabilmente l’avrebbero relegata in qualche biblioteca, a fare la segretaria in uno studio legale o ad amministrare fondi fiduciari o proprietà immobiliari.
Ma Wilkes non aveva dimenticato il suggerimento della sua insegnante delle medie. Appena arrivata all’università sentì dire che i computer sarebbero stati le macchine del futuro. Sapeva che al Massachusetts institute of technology (Mit) ce n’era qualcuno. Così, subito dopo aver preso la laurea, si fece accompagnare all’Mit dai suoi genitori ed entrò decisa nell’ufficio assunzioni dell’ateneo. “Avete un posto da programmatrice?”, chiese. Ce l’avevano, e fu assunta.
Oggi può sembrare strano che l’istituto assumesse una persona senza nessuna esperienza specifica. Ma a quei tempi quasi nessuno aveva esperienza di programmazione. Come disciplina quasi non esisteva, c’erano pochissimi corsi universitari di programmazione e nessun corso di laurea specialistico (l’università di Stanford, in California, creò un dipartimento d’informatica solo nel 1965). Perciò gli istituti che avevano bisogno di programmatori si affidavano ai test attitudinali per valutare le capacità di ragionamento logico dei candidati. Wilkes aveva una certa preparazione di base perché aveva studiato logica matematica, che implica la capacità di argomentare e dedurre collegando tra loro operatori logici binari (and/or), un po’ come succede con i codici informatici.
Diventò subito un genio della programmazione. Prima lavorò sull’Ibm 704, per il quale dovette scrivere un programma in un astruso “linguaggio assemblativo” (uno dei comandi era “LXA A, K” e serviva a dire al computer di prendere il numero nella posizione A della sua memoria e caricarlo nel “registro indice” K). Anche inserire il programma nell’Ibm 704 era una faccenda laboriosa. Non c’erano tastiere né schermi. Wilkes doveva scrivere il programma su carta e darlo a una persona che traduceva ogni istruzione in una serie di minuscoli buchi su una scheda perforata. Poi portava le scatole di istruzioni a un “operatore” che le inseriva in un lettore. Il computer eseguiva il programma e produceva risultati che uscivano da una stampante.
Spesso il programma non produceva i risultati che Wilkes voleva. Perciò doveva ricontrollare tutto per cercare di capire dov’era l’errore, rivedere mentalmente ogni riga di codice e immaginare come la macchina le avrebbe eseguite – in pratica doveva trasformare la sua mente in un computer – e poi riscrivere il programma. All’epoca le capacità della maggior parte dei computer erano molto limitate. La memoria dell’Ibm 704 poteva contenere solo quattromila parole. Un buon programmatore era elegante e conciso, non usava mai una parola di troppo. Erano
poeti dei bit. “Era come lavorare con una serie di rompicapi logici”, racconta Wilkes. “Sono ancora molto pignola e precisa. Fino all’eccesso. Noto ogni minimo dettaglio”.
Che tipo di persone possiedono questa mentalità? All’epoca si presumeva che fossero le donne. Avevano già svolto un ruolo fondamentale nella preistoria dell’informatica: durante la seconda guerra mondiale a Bletchley Park, nel Regno Unito, erano state le donne a far funzionare alcune delle prime macchine per decifrare i codici segreti. Secondo dati governativi, negli Stati Uniti nel 1960 le programmatrici erano un quarto del totale. Wilkes racconta che negli anni sessanta nei Lincoln labs dell’Mit, dove lavorava, a occuparsi della programmazione c’erano soprattutto donne. Non era ancora considerato un lavoro prestigioso.
Nel 1961 Wilkes fu assegnata a un nuovo importante progetto, la creazione del Linc. Dato che era uno dei primi personal computer interattivi del mondo, era destinato a diventare uno strumento innovativo per gli uffici e i laboratori. Avrebbe perfino avuto una tastiera e uno schermo per essere programmato più rapidamente, senza quelle noiose schede perforate e le stampanti. I suoi creatori erano in grado di realizzare l’hardware, ma avevano bisogno di Wilkes per scrivere i programmi che avrebbero permesso a un’utente di controllare il computer in tempo reale.
In tempo reale
Per due anni e mezzo Wilkes e la sua squadra studiarono diagrammi di flusso, pensando a come funzionava il circuito e a come permettere a una persona d’interagire con la macchina. “Lavoravamo fino a ore impossibili, mangiavamo schifezze”, ricorda Wilkes. Il sessismo c’era, soprattutto per quanto riguardava i salari e le promozioni, ma Wilkes godeva del relativo rispetto reciproco che c’era tra gli uomini e le donne dei Lincoln labs, dove regnava un certo senso di parità. “Eravamo tutti nerd”, dice. “Tutti geni dell’informatica. Ci vestivamo nello stesso modo. Ero accettata dagli uomini del mio gruppo”. Quando riuscirono a farlo funzionare, il prototipo del Linc risolse un diabolico problema di elaborazione dei dati posto da un biologo, che per l’entusiasmo si mise a ballare intorno al computer.
Alla fine del 1964 Wilkes tornò da un giro intorno al mondo di un anno e le fu chiesto di lavorare al completamento del sistema operativo del Linc. Ma il laboratorio era stato trasferito a St. Louis, in Missouri, e lei non aveva nessuna intenzione di trasferirsi. Così spedirono un Linc a casa dei suoi genitori a Baltimora. Proprio all’ingresso della casa, ai piedi delle scale, quell’enorme armadio pieno di nastri magnetici che ronzavano, collegato a una scatola grande come un frigorifero di circuiti elettrici, faceva presagire un futuro fantascientifico. Wilkes fu una delle prime persone al mondo ad avere un personal computer in casa. Dopo non molto, gli utenti del Linc di tutto il mondo avrebbero usato il suo codice per gestire analisi mediche e perfino per creare un software interattivo che consentiva di chiedere ai pazienti che sintomi avevano.
Ma anche se si era affermata come programmatrice, Wilkes desiderava ancora fare l’avvocata. I computer erano stimolanti dal punto di vista intellettuale, ma la facevano sentire isolata. Nel 1972 fece domanda per iscriversi alla facoltà di giurisprudenza di Harvard, fu accettata, si laureò e passò i quarant’anni successivi a esercitare la professione. “Ho adorato quel lavoro”, dice.
Negli anni cinquanta e sessanta non era molto vantaggioso assumere uomini
Oggi Wilkes è in pensione e vive a Cambridge, in Massachusetts. Ha 81 anni e i capelli bianchi, ma conserva gli stessi modi precisi e il sorriso smagliante che si vedono nelle foto degli anni sessanta, quando posava raggiante accanto al Linc. Ogni tanto tiene una conferenza agli studenti di informatica. Ma il mondo che li aspetta è, stranamente, meno popolato di donne e per molti versi meno accogliente nei loro confronti di quanto non lo fosse ai suoi tempi. Nel 1960, quando fu assunta all’Mit, la quota di donne che lavoravano nel campo dell’informatica e della matematica (che nei dati del governo federale sono raggruppate) era del 27 per cento. Nel 1990 avrebbe raggiunto il 35 per cento. Secondo i dati federali quello fu il picco più alto. Da allora la percentuale ha continuato a scendere e nel 2013 era del 26 per cento.
La prima persona che oggi potremmo definire una programmatrice fu Ada Lovelace, vissuta duecento anni fa. Nel 1833, quando era una giovane matematica, conobbe Charles Babbage, un inventore che stava cercando di progettare quella che chiamava la macchina analitica, una serie di ingranaggi metallici in grado di eseguire istruzioni condizionali (if/then; se/allora) e d’immagazzinare informazioni nella sua memoria. Lovelace ne rimase affascinata e ne comprese le enormi potenzialità. Si rendeva conto che un calcolatore capace di modificare le proprie istruzioni e la propria memoria sarebbe stato molto più utile di una semplice macchina calcolatrice. Per dimostrarlo, scrisse quello che spesso è considerato il primo programma della storia, un algoritmo grazie al quale la macchina analitica avrebbe potuto calcolare la sequenza numerica di Bernoulli. Ma Babbage non riuscì mai a costruire il suo calcolatore e Lovelace, che morì di cancro a 36 anni, non vide mai il suo programma in esecuzione.
Dopo la guerra
Quando i computer diventarono finalmente una realtà, negli anni quaranta del novecento, le donne furono ancora una volta le prime a scriverne i programmi. All’epoca gli uomini che lavoravano in quel settore consideravano la scrittura dei programmi un’attività secondaria e poco interessante. La vera gloria risiedeva nel fabbricare le macchine, il cosiddetto hard-ware. E il software? “Quel termine non era stato ancora inventato”, spiega Jennifer S. Light, docente di storia della scienza e della tecnologia all’Mit.
Negli anni quaranta questa logica fu anche alla base della costruzione del primo computer programmabile degli Stati Uniti, l’Electronic numerical integrator and computer, o Eniac. Finanziato dall’esercito, era un colosso che pesava più di trenta tonnellate e conteneva 17.468 valvole termoioniche. Solo farlo funzionare era considerata un’eroica impresa ingegneristica da uomini. La programmazione, invece, sembrava un lavoro umile, quasi da segretarie. Le donne erano da tempo impiegate nel noioso lavoro di fare i calcoli. Negli anni precedenti alla nascita dell’Eniac molte aziende, tra cui l’Ibm, avevano comprato enormi tabulatrici elettroniche – utili, per esempio, per calcolare gli stipendi – e spesso erano state le donne a occuparsi delle schede perforate. Quando arrivò il momento di assumere tecnici per scrivere le istruzioni dell’Eniac, ai dirigenti sembrò sensato formare una squadra tutta femminile: Kathleen McNulty, Jean Jennings, Betty Smider, Marlyn Wescoff, Frances Bilas e Ruth Lichterman. Gli uomini avrebbero deciso cosa far fare all’Eniac e le donne lo avrebbero “programmato” per eseguire le istruzioni.
“Eravamo in grado di diagnosticare i problemi fino alla singola valvola”, avrebbe raccontato in seguito Jennings in un’intervista per gli Annali della storia dell’informatica dell’Istituto degli ingegneri elettrici ed elettronici. Jennings, figlia di una coppia del ceto popolare e cresciuta in un paesino di 104 abitanti nel Missouri, era laureata in matematica. “Dato che conoscevamo sia le applicazioni sia la macchina, avevamo imparato a diagnosticare i problemi quanto gli ingegneri, se non meglio”.
Dopo la guerra, quando la programmazione passò dall’esercito al settore privato, le donne rimasero all’avanguardia e si occuparono dei lavori più importanti. L’informatica Grace Hopper è spesso considerata la realizzatrice del primo “compilatore”, un programma che permette di creare linguaggi di programmazione che si avvicinano alla parola scritta: il programmatore poteva così formulare le istruzioni in uno pseudo-inglese e il compilatore avrebbe fatto il duro lavoro di trasformarlo in uno e zero per il computer. Hopper creò anche il linguaggio flowmatic per gli uomini d’affari che non erano tecnici. In seguito fece da consulente all’équipe che creò il linguaggio di programmazione Cobol, che sarebbe diventato il più usato dalle aziende. Un’altra programmatrice di quella squadra, Jean E. Sammet, continuò a influenzare lo sviluppo del linguaggio Cobol per decenni. Frances Allen era così esperta nell’ottimizzazione del Fortran, un linguaggio molto usato per i calcoli scientifici, che fu la prima donna a diventare socia dell’Ibm.
Negli anni cinquanta e sessanta, quando le aziende cominciarono ad affidare ai software il compito di calcolare gli stipendi e di elaborare i dati, ci fu l’esplosione della domanda di programmatori, e non era particolarmente vantaggioso assumere uomini. Come aveva scoperto Wilkes, i datori di lavoro cercavano semplicemente candidati meticolosi che conoscevano la logica e la matematica. E da questo punto di vista gli stereotipi di genere giocavano a favore delle donne: alcuni dirigenti sostenevano che la tradizionale capacità delle donne di svolgere lavori di precisione come la tessitura e la maglia rivelava proprio questa attitudine (il libro del 1968 Your career in computing affermava che le persone che amano “cucinare seguendo un libro di ricette” sono brave anche a programmare).
In quel settore si premiava soprattutto l’attitudine: i candidati venivano spesso sottoposti a un test (che in genere si basava sul riconoscimento di schemi), e se lo superavano venivano assunti e formati sul posto, un sistema particolarmente favorevole per i principianti.
C’era così bisogno di bravi programmatori che in Canada Arlene Gwendolyn, una giovane donna nera, poté diventare la prima a ricoprire quel ruolo nonostante le discriminazioni dell’epoca. Lee e il marito erano una coppia mista e nessuno voleva affittargli una casa, perciò avevano bisogno di soldi per acquistarla. Secondo il figlio, che ha raccontato l’esperienza di sua madre in un blog, all’inizio degli anni sessanta Lee si era presentata a una ditta dopo aver letto su un giornale di Toronto un annuncio per elaboratori di dati e analisti di sistemi. Aveva convinto i suoi potenziali datori di lavoro, tutti bianchi, a sottoporla al test attitudinale e, quando si era collocata nel 99° percentile, prima di assumerla il supervisore l’aveva mitragliata di domande. “È stato facile”, avrebbe poi raccontato al figlio. “Al computer non interessava che fossi donna e nera. Per la maggior parte delle altre donne è stato più difficile”.
Nel 1967 c’erano tante programmatrici che la rivista Cosmopolitan pubblicò un articolo intitolato “Computer girls”, accompagnato da fotografie di donne piegate su computer che ricordavano il ponte di controllo della Uss Enterprise. Nell’articolo si sottolineava che facendo quel lavoro le donne potevano guadagnare fino a ventimila dollari all’anno (che corrispondono a più di 150mila dollari di oggi). Era uno dei pochi settori in cui le donne guadagnavano bene. In tutti gli altri campi che richiedevano un’alta professionalità ne entravano pochissime, perfino le laureate in matematica avevano scelte limitate: potevano insegnare alle superiori o fare calcoli nelle compagnie di assicurazioni.
Il momento della svolta
Possiamo individuare il momento in cui le donne cominciarono a essere estromesse dalla programmazione nel 1984. Una decina d’anni prima uno studio aveva rivelato che il numero di donne e di uomini che si interessavano all’informatica era più o meno lo stesso. Era più probabile che a essere iscritti ai corsi di programmazione fossero gli uomini, ma la partecipazione delle donne era aumentata regolarmente e rapidamente per tutti gli anni settanta, fino a quando, nell’anno accademico 1983-1984, il 37 per cento dei laureati in informatica e scienze dell’informazione era composto da donne. In soli dieci anni il loro numero era più che raddoppiato.
Poi la tendenza si invertì. A partire dal 1984 la percentuale scese e nel 2010 era dimezzata: le donne erano solo il 17,6 per cento di chi partecipava ai corsi d’informatica e scienza dell’informazione.
Uno dei motivi di questo calo vertiginoso fu il cambiamento del modo in cui i giovani imparavano a programmare. L’avvento dei personal computer alla fine degli anni settanta e all’inizio degli ottanta fece aumentare il numero di persone che si laureavano in informatica. Prima di allora quasi nessuno degli studenti che arrivavano al college aveva mai toccato un computer. Erano macchine rare e costose, di cui potevano disporre quasi esclusivamente i laboratori di ricerca e le grandi aziende. In altre parole, quasi tutti erano sullo stesso piano e nuovi del mestiere.
Quando la prima generazione di personal computer – per esempio il Commodore 64 e il Trs-80 – arrivò nelle case, i ragazzi cominciarono a giocarci e, un po’ alla volta, impararono i concetti base della programmazione. A metà degli anni ottanta alcuni dei nuovi iscritti arrivavano all’università sapendo già programmare. Erano incredibilmente preparati e probabilmente scettici su quello che avrebbero potuto imparare in un corso base. Questi studenti erano prevalente maschi, come scoprirono due ricercatori quando cercarono di capire perché così poche donne si iscrivevano alla facoltà.
Uno di questi ricercatori era Allan Fisher, che all’epoca era preside associato della facoltà d’informatica della Carnegie Mellon university, in Pennsylvania. La facoltà aveva introdotto un corso di laurea breve d’informatica nel 1988, e dopo pochi anni Fisher notò che le donne che lo frequentavano erano meno del 10 per cento del totale. Nel 1994 assunse Jane Margolis, una sociologa che oggi è ricercatrice capo alla scuola di studi sull’istruzione e l’informazione dell’università della California, per capire perché. Nell’arco di quattro anni, dal 1995 al 1999, lei e i suoi colleghi intervistarono e seguirono un centinaio di studenti, maschi e femmine, del dipartimento di informatica della Carnegie Mellon, e nel 2002 lei e Fisher pubblicarono i risultati della ricerca in un libro.
Margolis aveva scoperto che gli studenti del primo anno che arrivavano alla Carnegie Mellon già con una qualche esperienza erano quasi tutti maschi, perché erano stati più a contatto con i computer rispetto alle ragazze. C’era il doppio delle probabilità che ne avessero ricevuto uno in regalo dai genitori, ed era normale che se un computer entrava in casa finisse nella stanza del figlio invece che in quella della figlia. I maschi tendevano anche a collaborare con i padri, studiavano i manuali di linguaggio Basic con loro ed erano incoraggiati a imparare, cosa che non succedeva con le figlie. “Questa è stata una delle cose più interessanti che abbiamo scoperto”, dice Margolis. Quasi tutte le ragazze iscritte alla facoltà d’informatica della Carnegie Mellon le avevano raccontato che i padri e i fratelli lavoravano insieme “e loro avevano dovuto imporsi per ottenere un po’ di attenzione”.
Le avevano detto che in genere le loro madri usavano poco il computer di casa. Le ragazze, anche quelle più in gamba, avevano raccolto il messaggio e di conseguenza avevano frenato il loro entusiasmo. Questo rifletteva i ruoli che i ragazzi e le ragazze storicamente avevano sempre avuto: i maschi erano incoraggiati a giocare con le costruzioni e con gli apparecchi elettronici, le femmine a intrattenersi con le bambole e le cucine giocattolo. Margolis non era sorpresa del fatto che gli stessi schemi si fossero ripetuti con l’informatica.
A scuola le ragazze ricevevano lo stesso messaggio. I computer erano per i maschi. I ragazzi appassionati d’informatica che si riunivano in circoli, almeno in parte per sfuggire ai tormenti della cultura sportiva, spesso finivano più o meno intenzionalmente per riprodurre quei comportamenti e per escluderle (snobbavano non solo le ragazze ma anche i neri e gli ispanici). Secondo Fisher questi clan maschili costituivano “una sorta di rete di supporto”.
Questo spiega perché le classi del primo anno erano nettamente divise in un folto gruppo di ragazzi che conoscevano bene i concetti base della programmazione e un piccolo gruppo di ragazze che spesso erano totalmente all’oscuro della materia. Si era creato uno scisma culturale che portava le donne a dubitare delle proprie capacità. Come avrebbero mai potuto mettersi in pari?
Secondo gli studenti – e anche i docenti – in classe c’era la sensazione che se non avevi già programmato in maniera ossessiva per anni, quello non era il tuo posto. Il “vero programmatore”, spiega Margolis, era quello che aveva l’abbronzatura da schermo perché stava tutto il tempo davanti a un monitor. “L’idea era che doveva piacerti stare davanti a un computer per giornate intere, e se non ci passavi 24 ore su 24 per sette giorni alla settimana non eri un ‘vero’ programmatore”. In realtà c’erano molti uomini che non rientravano in questo stereotipo monomaniacale. Ma mentre a loro era concesso dedicarsi ad altre attività, nel caso delle ragazze era mal visto: quelle che lo facevano erano attanagliate dai dubbi e cominciavano ad abbandonare i corsi (la stessa cosa facevano i pochi studenti neri e ispanici che erano arrivati al campus senza un’esperienza di programmazione precedente).
Barbe, sandali e solitudine
Negli anni ottanta negli Stati Uniti il lavoro pionieristico svolto dalle programmatrici era stato quasi dimenticato. Anzi, Hollywood stava cominciando a presentare lo stereotipo opposto: i computer erano il regno degli uomini. In film di grande successo come La rivincita dei nerds, La donna esplosiva, Tron, Wargames. Giochi di guerra e tanti altri, i protagonisti erano quasi sempre giovani maschi bianchi. I videogiochi, una delle attività che portavano a interessarsi ai computer, erano rivolti molto più spesso ai ragazzi, come era emerso da una ricerca del 1985 di Sara Kiesler, una docente della Carnegie Mellon. “Per la cultura dominante erano più bravi i maschi”, dice Kiesler, che dirige anche un programma della National science foundation. “Molti segnali lasciavano intendere che se non avevi i geni giusti non eri ben accetto”.
Uno studio condotto tra gli studenti dell’Mit nel 1983 aveva prodotto gli stessi scoraggianti risultati. Le ragazze che alzavano la mano per fare domande durante le lezioni d’informatica erano spesso ignorate dai professori e la loro voce era sopraffatta da quella degli altri studenti. Le accusavano di non essere abbastanza agguerrite, ma se li sfidavano o li contraddicevano, i colleghi di corso dicevano: “Come sei acida oggi. Si vede che hai le mestruazioni”. A volte nei gruppi di ricerca si verificavano comportamenti “da spogliatoio”, concludeva il rapporto, con gli uomini che commentavano apertamente l’aspetto fisico delle compagne.
Quando la programmazione cominciò a suscitare l’interesse del mondo della cultura, gli studenti che si precipitavano a iscriversi ai corsi d’informatica diventarono così numerosi che le università si trovarono in difficoltà: non avevano abbastanza docenti. Alcune facoltà corsero ai ripari alzando delle barriere, come test di accesso, carichi di studio pesantissimi e lezioni complicatissime che spingevano molti studenti ad arrendersi. Tutto questo creava un’atmosfera in cui gli studenti che avevano più probabilità di farcela erano quelli che avevano già esperienza di programmazione, quindi erano soprattutto maschi. Quando a metà degli anni novanta i corsi d’informatica cominciarono di nuovo ad aprirsi, ormai quella cultura si era consolidata. La maggior parte degli iscritti erano uomini. L’interesse delle donne non tornò mai più ai livelli della fine degli anni settanta e dei primi anni ottanta. E le ragazze erano spesso isolate. In un’aula con venti studenti c’erano al massimo cinque donne.
Dietro quell’atmosfera sessista si nasconde in parte il fantasma della sociobiologia
Mentre le università chiudevano le porte alle donne, la stessa cosa succedeva nelle aziende. L’emergere del concetto di culture fit, cioè la capacità di fare propria la cultura aziendale, stava cambiando i criteri per l’assunzione del personale. I manager cominciarono a scegliere i programmatori non in base all’attitudine ma in base a quanto corrispondevano allo stereotipo del maschio cervellone e possibilmente asociale.
Il cambiamento, in realtà, era cominciato molto prima, già alla fine degli anni sessanta, quando i dirigenti d’azienda si erano accorti che i programmatori maschi tendevano sempre più a essere persone isolate con una competenza tecnica molto maggiore di quella dei loro superiori. Erano “spesso egocentrici e leggermente nevrotici”, come disse durante una conferenza del 1968 il famoso analista del settore Richard Brandon, aggiungendo che “in questa fascia demografica l’incidenza di barbe, sandali e altri sintomi d’individualismo o anti-conformismo è notevolmente più alta della media”.
Oltre ai test per verificare l’attitudine al pensiero logico, come ai tempi di Mary Allen Wilkes, per scegliere i loro dipendenti in base a queste caratteristiche tipiche delle persone taciturne e asociali le aziende introdussero i test della personalità. “Diventarono uno strumento molto potente”, dice Nathan Ensmenger, professore d’informatica dell’università dell’Indiana, che ha studiato questo periodo di transizione. La caccia a quel tipo di personalità tagliava fuori le donne. I dirigenti accettavano senza battere ciglio uomini trasandati, non rasati e scontrosi, ma non tolleravano le donne che si comportavano nello stesso modo. Per programmare era sempre più necessario restare in ufficio fino a tardi, e si diceva che non era sicuro per le donne lavorare fino alle ore piccole, quindi a loro era vietato fermarsi con i colleghi.
Anche il vecchio rapporto gerarchico tra hardware e software si era invertito. Il settore del software stava diventando quello più importante e redditizio. Le aziende assumevano sempre più spesso programmatori che un giorno avrebbero potuto aspirare a ruoli manageriali. E poche erano disposte a mettere una donna a capo di un gruppo di uomini.
Negli anni novanta e duemila la legge della culture fit era ormai onnipresente, soprattutto nelle startup, che avevano un numero relativamente limitato di dipendenti, costretti a rimanere confinati in spazi ridotti per molte ore. I fondatori cercavano di assumere persone che fossero simili a loro dal punto di vista sociale e culturale.
Nel 2014 l’imprenditore ed ex professore universitario Kieran Snyder condusse un’analisi informale su 248 giudizi sulla performance dei tecnici: scoprì che era molto più probabile che le donne ricevessero valutazioni negative, mentre agli uomini si davano soprattutto consigli costruttivi.
Le donne se ne vanno
Dietro quest’atmosfera sessista si nasconde in parte il fantasma della sociobiologia, secondo cui gli uomini sarebbero più adatti alla programmazione delle donne perché la natura gli ha dato più qualità necessarie per eccellere in quel campo.
Nell’estate del 2017 James Damore, un dipendente di Google, scrisse in un’email interna che alcune caratteristiche tipiche delle donne – per esempio l’idea che tendono a essere più ansiose – spiegavano perché non riuscivano ad affermarsi in un mondo competitivo come quello della programmazione. A sostegno della sua tesi citava lo psicologo Simon Baron-Cohen, secondo cui il cervello maschile è più portato a “sistematizzare”, mentre quello delle donne a “empatizzare”. Damore fu licenziato e Google giustificò la sua decisione dicendo che non poteva tenere una persona convinta che le sue colleghe fossero inadatte al lavoro che svolgevano. Ma altri dipendenti maschi dell’azienda difesero Damore e si dichiararono d’accordo con la sua analisi. Tra gli uomini della Silicon valley è molto radicata l’idea che il mondo dei programmatori sia governato dalla meritocrazia, e la sociobiologia offre una giustificazione a chi preferisce credere che il sessismo sul posto di lavoro non è poi così grave o addirittura dubita che esista.
Se la biologia costituisse un limite alla capacità delle donne di programmare, il rapporto tra uomini e donne in questo settore dovrebbe essere uguale in tutti i paesi. Ma non è così. In India le donne sono il 40 per cento degli studenti d’informatica e di altre discipline correlate. Questo nonostante le maggiori difficoltà che incontrano per emergere rispetto alle ragazze statunitensi. In India i ruoli di genere sono così rigidi che le studenti universitarie spesso hanno il coprifuoco alle otto di sera, quindi non possono fermarsi fino a tardi nei laboratori, come ha scoperto la sociologa Roli Varma nel 2015. Ma le donne indiane hanno un forte vantaggio culturale rispetto alle statunitensi: hanno molte più probabilità di essere incoraggiate dai genitori a entrare in questo settore, spiega Varma. Inoltre, considerano il lavoro di programmatrici più sicuro perché si svolge al chiuso e non le espone al rischio di molestie sessuali che correrebbero in strada. Un quadro simile è emerso anche in Malesia, dove nel 2001 – proprio quando negli Stati Uniti la percentuale di donne che lavoravano nel campo dell’informatica era ai minimi storici – le donne rappresentavano il 52 per cento delle laureate in informatica e il 39 per cento delle candidate al dottorato dell’università di Malaya a Kuala Lumpur.
Visto che hanno capito che la cultura della Silicon valley non cambierà mai, a un certo punto della loro carriera molte donne abbandonano il settore. Quando nel 2014 Sue Gardner ha condotto un sondaggio su 1.400 donne, tutte hanno detto la stessa cosa: nei primi anni, quando avevano cominciato a programmare, non facevano caso al sessismo che regnava nell’ambiente. Adoravano il loro lavoro, erano entusiaste e ambiziose. Ma con il passare del tempo, dice Gardner, “hanno preso atto della realtà”. Mentre salivano di grado, non trovavano quasi più nessuno che gli insegnasse qualcosa. Circa due terzi delle intervistate avevano subìto molestie o avevano assistito a comportamenti inappropriati, come conferma The Athena factor, uno studio del 2008 sulle donne nel mondo della tecnologia; e un terzo delle intervistate dichiarava che i capi avevano un atteggiamento più amichevole nei confronti dei colleghi e li sostenevano di più. Spesso si dà per scontato che il momento in cui nel settore tecnologico, come in molti altri, le donne vengono messe da parte è quando hanno un figlio, ma Gardner ha scoperto che non era questo a scoraggiarle: era determinante vedere che uomini con qualifiche pari o inferiori alle loro avevano più opportunità di carriera ed erano trattati meglio.
Il risultato di tutto questo è un’industria dominata dai maschi molto più di quanto non lo fosse decenni fa, e più di qualsiasi altro settore. Secondo i dati del Bureau of labor statistics relativi al 2018, negli Stati Uniti solo il 26 per cento delle persone che lavorano nel campo dei computer e della matematica sono donne. Tra le persone che fanno parte delle minoranze le percentuali sono altrettanto basse: i dipendenti neri sono l’8,4 per cento e gli ispanici il 7,5 per cento (secondo l’American community survey del Census bu-reau, nel 2016 i programmatori neri erano solo il 4,7 per cento). Nella Silicon valley la situazione è ancora più tragica: da un’analisi del 2017 svolta da Recode, un sito di notizie sull’industria tecnologica, è emerso che il 20 per cento dei tecnici di Google è composto da donne, mentre solo l’1 per cento da neri e il 3 per cento da ispanici. A Facebook la situazione era quasi identica, mentre a Twitter le percentuali erano rispettivamente 15, 2 e 4.
È stata un’inversione di tendenza profonda rispetto al passato. All’inizio dell’era informatica le donne si dedicavano in massa alla programmazione perché offriva maggiori opportunità e i meriti venivano riconosciuti più che in altri settori. Oggi per loro il software è una porta chiusa.
Negli ultimi anni l’interesse delle donne per la programmazione ha ripreso ad aumentare in tutti gli Stati Uniti. Secondo una ricerca di Linda Sax, docente dell’università della California a Los Angeles, nel 2012 la percentuale di laureate che volevano specializzarsi in informatica ha raggiunto livelli che non si vedevano dagli anni ottanta. C’è anche stato un piccolo boom di organizzazioni che preparano e incoraggiano i gruppi meno rappresentati, come Black girls code e Code newbie. La programmazione è ormai considerata, in termini puramente economici, uno dei lavori più interessanti e ben pagati.
Le nuove programmatrici
In un’epoca in cui Instagram, Snapchat e gli smartphone fanno parte della vita quotidiana, i potenziali programmatori non si preoccupano più tanto del fatto che si tratta di un lavoro solitario e lontano dalla realtà. “Oggi è più probabile rispetto al passato che le donne che si considerano creative scelgano l’informatica”, dice Sax, che ha analizzato i dati demografici sugli studenti di scienze, tecnologia, ingegneria e matematica. Hanno ancora meno probabilità di entrare nel campo della programmazione che in altri, ma è sempre più spesso il loro orizzonte finale. Questo cambiamento è confermato dal fatto che è molto più facile imparare a programmare anche senza una laurea, grazie a corsi online, workshop relativamente meno costosi o perfino i gruppi d’incontro per principianti, opportunità che esistono solo da una decina d’anni.
Cambiare la cultura nelle università è importante, ma la maggior parte delle veterane del settore con cui ho parlato dice che cambiare la cultura dell’industria in generale, soprattutto il sessismo e il razzismo che sono ancora profondamente radicati nella Silicon valley, è molto più difficile.
In un weekend di primavera del 2017 a New York, il sito di notizie tecnologiche TechCrunch ha organizzato un evento in cui più di 700 programmatori e progettisti avevano 24 ore per inventare un nuovo prodotto. All’ora di pranzo della domenica, le squadre hanno presentato le loro creazioni a una commissione di giudici. Una delle applicazioni era Instagrammie, un sistema che riconosce automaticamente lo stato d’animo di un parente anziano o di una persona con mobilità limitata; un’altra era Waste Not, un programma per ridurre lo spreco di cibo. I concorrenti erano per la maggior parte programmatori che lavoravano nelle aziende tecnologiche locali o studenti di informatica delle università vicine. Ma la squadra che ha vinto era composta da tre ragazze di un liceo del New Jersey: Sowmya Patapati, Akshaya Dinesh e Amulya Balakrishnan. In sole 24 ore avevano creato reVive, un’applicazione basata sulla realtà virtuale per verificare se un bambino soffre del disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Dopo aver ricevuto sul palco il premio (un enorme assegno da cinquemila dollari), le ragazze si sono accasciate sulle sedie della stanza accanto per riprendersi. Avevano lavorato quasi ininterrottamente dalle 12 del giorno prima ed erano esauste.
“C’è voluta tanta caffeina”, ha detto ridendo Balakrishnan, 17 anni. Indossava una maglietta azzurra con la scritta “Who hacks the world? Girls” (chi hackera il mondo? Le ragazze). Loro stesse erano meravigliate di quello che erano riuscite a fare in ventiquattr’ore.
Erano tutte figlie di immigrati che si erano interessate alla programmazione a scuola ed erano state incoraggiate dai genitori: quelli di Balakrishnan si occupavano di software e medicina; quelli di Dinesh erano arrivati negli Stati Uniti dall’India nel 2000 e lavoravano nel settore della tecnologia dell’informazione. Patapati era immigrata da bambina con una giovane madre che non aveva frequentato l’università e un padre che era stato il primo di una famiglia di contadini a studiare. Anche lui lavorava nel settore della tecnologia dell’informazione.
Essendo appassionate di programmazione, erano abituate a essere considerate secchione e solitarie dai compagni, mi ha detto Dinesh. Aver vinto il premio di
TechCrunch aveva attirato l’attenzione su di loro, ma non solo in senso positivo. “Sui social qualcuno ha scritto: ‘Hai vinto perché sei una ragazza! Hanno premiato la diversità’”, dice Balakrishnan. Quando la vittoria era stata annunciata online, “molti tecnici avevano commentato: ‘Hanno vinto perché sono ragazze’”.
A due anni di distanza, Balakrishnan si è presa un anno sabbatico per costruire un congegno per il monitoraggio del cuore e provare a vincere i centomila dollari necessari per commercializzarlo. Ha fatto domanda per iscriversi a informatica e, nel tempo libero, ha partecipato a un concorso di bellezza indetto da Miss Usa 2017, Kára McCullough, che è una scienziata nucleare. “Mi sono resa conto che potevo usare il concorso per dimostrare alle altre ragazze che possono essere femminili e al tempo stesso lavorare in un settore estremamente tecnico in cui dominano gli uomini”, dice. Per quanto riguarda Dinesh, nel suo ultimo anno di scuola ha organizzato una maratona di hacker per sole donne che a New York è diventata un evento annuale (“Lo spirito con cui è nata però era molto diverso”, dice, “puntavamo più sulla formazione”).
Tra vent’anni
Lo scorso autunno Patapati e Dinesh sono entrate all’università di Stanford per studiare informatica e sono entrambe molto interessate all’intelligenza artificiale, ma hanno notato che durante le lezioni c’è un po’ di tensione. Patapati, che ha fondato il gruppo Donne dell’intelligenza artificiale, guidato da una tecnica della Apple, ha visto tante volte i colleghi maschi ignorare la sua mano alzata durante le discussioni o ripetere qualcosa che aveva appena detto come se fosse stata una loro idea. “A volte penso che sia solo un pregiudizio che le persone non si accorgono di avere”, dice. “E la cosa mi disturba molto”.
“Il mio sogno è occuparmi di guida automatica alla Tesla, alla Waymo o in qualche altra azienda simile”, spiega Dinesh. “Oppure, se mi rendo conto che c’è qualcosa che non va, magari fonderò una mia azienda”. Dopo aver conosciuto un’investitrice attraverso il gruppo #BuiltByGirls, ha già cominciato a muoversi in questo senso. “Ora so che posso rivolgermi a loro o ad altri che conoscono il settore”, dice.
Le chiedo se tra vent’anni il software sarà tornato alle sue radici e le donne saranno di nuovo dappertutto. “Non so se questo succederà”, ammette. “Ma penso che noi ragazze siamo decisamente in crescita”.
Questo articolo è stato pubblicato l’8 marzo 2019 sul numero 1297 di Internazionale con il titolo “Codici femminili”. L’originale era apparso sul New York Times Magazine con il titolo “The secret history of women in coding”.