Elogio del mostro (e dell’amore) in un pianeta infetto

19 Marzo 2020 /

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di Cristina Morini
Sopravvivere su un pianeta infetto è il sottotitolo scelto per l’edizione italiana dell’ultimo libro di Donna Haraway, Chthulucene. E, in effetti, a guardarla da ora e qui, al centro del fragore della info-infezione da virus Covid-19, visionaria appare la scelta dell’editore Nero, nel tradurre dall’originale inglese Staying with the Trouble.  Abbiamo il problema, senz’altro. Ma, pur senza evocare scenari catastrofici, anzi, proprio allo scopo di apprendere una consapevolezza duratura, siamo di fronte a un dilemma drammatico, laddove il coronavirus rappresenta l’ennesimo (e perturbante) sintomo di una crisi di smisurata profondità, poiché ha a che vedere con la sopravvivenza delle specie viventi su Gaia. La nostra, umana, insieme alle altre.
L’enfasi oggi obbligatoriamente posta sulla malattia, sui malati, sulla quarantena, sui pericoli per la vita degli uomini, ci pone finalmente  di fronte a uno scenario di lutto con cui già altri esseri si confrontano da tempo: “Il Living Planet Index del 2018, principale indice statistico dello stato di biodiversità sulla Terra, ha tracciato una perdita del 60% dei vertebrati tra il 1970 e il 2014”.
Dice Haraway: “Il lutto implica abitare una perdita e arrivare così ad apprezzarne il significato, a riconoscere il modo in cui è cambiato il mondo e il modo in cui dobbiamo cambiare noi stessi e rinnovare i nostri rapporti, se vogliamo andare avanti […] Tuttavia la realtà è che non c’è alcun modo di evitare il difficile lavoro culturale della riflessione sul lutto. Questo scenario non è in contrasto con l’azione pratica, anzi è il fondamento di qualsiasi risposta sostenibile e consapevole” (pag. 82).
È a partire da questa ispirazione, andando verso un diverso modo di pensare che ritengo che le direttive sulla “emergenza epidemiologica” siano tragicamente allarmistiche poiché si iscrivono all’interno del medesimo alveo dell’individualismo utilitarista che ci ha portato fino a qui e che ci recinta ancora, separandoci in unità competitive, contrapponendo “sani” e “malati”, “abili” e “inabili”. Esse non possono che dimostrarsi inadatte a riflettere su nuovi aspetti come “empatia, simbiosi, simbiogenesi, sviluppo di ecologie di rete”. Modelli eco-sociali, insomma, al centro dei quali la cura venga intesa come responsabilità collettiva che coinvolge tutti i corpi, tutti indistintamente importanti, tutti indistintamente mortali. Siamo, invece, ancora una volta inermi dinnanzi a forme di consumazione delle vite di individui-singolarità, disgregate e disorganizzate, in balia di medium comunicativi integrati che producono continui dispositivi per determinare la nostra debole condizione esistenziale (precarietà, debito, povertà, crisi ambientale, crisi della rappresentanza)[1].
Si isola il malato, lo si confina a casa, in quarantena, si bloccano le città e la mobilità delle persone (il pensiero corre necessariamente ai migranti), sta ferma la nave nel porto di Yokohama con il suo carico di sofferenze, c’è una scusa ulteriore per non fare sbarcare chi scappa dalle torture della Libia cui l’Occidente li ha consegnati. Si diffonde la paura dell’Altro, una oscura ammaliante nebbia che ci scaraventa in luoghi dove l’Altro (in questo caso di nazionalità cinese) si autoconfina, mette un biglietto sul negozio, si allontana dalla “comunità umana”. Nessun riconoscimento “a pratiche collettive di immaginazione, resistenza, rivolta, riparazione e lutto, oltre che per vivere e morire bene” (pag. 80). Eppure, come non pensare a strategie differenti che pongano al centro il Commonfare o le Cure Ribelli, per raccontare nuovi prototipi relazionali, immanenti e sociali, ma anche rispettosi di geostorie capaci di “non assorbire tutta l’aria dell’atmosfera”?
Comprendo bene, sia chiaro, il problema pratico di governi alle prese con morbilità e mortalità, non voglio sottovalutare, non voglio apparire tracotante, fatalista o superficiale. Ma penso che le risposte trovate, per ora, rispondano esclusivamente a tendenze manageriali, tecnocratiche, prigioniere del mercato e del profitto. Segnali da dare ai sentimenti dei mercati e non a quelli degli umani e non umani coinvolti in questa strana, singolare, avventura con il virus sconosciuto.
Sento ancora meglio la tentazione a divenire mostro, a non avere paura, a voler bene al mostro che è in me, in noi, che noi siamo. Figura liminale, ribelle, che conosce profondamente amore e dolore che derivano dall’essere fragile corporeità decentrata rispetto alla cultura egemone. Metafora non certamente nuova quella del mostro, dell’alieno cui, per esempio, Gaia Giuliani ha dedicato un testo bellissimo[2] che oggi assume straordinaria attualità, ricordando come il mostro è stato ed è anche la donna, l’eretico, l’omosessuale. E che il disastro portato con sé da questo “Altro assoluto” nelle narrazioni della Storia e della Scienza con i loro pretesi “discorsi rigorosi e auto-riflessivi” “è materia di controllo centralizzata dagli Stati-Impero o da agenzie specializzate che operano a distanza”. Una distanza che consentirebbe “gestione del rischio, disaster management” o retoriche relative alla “cosiddetta prevenzione” ma non di scorgere orizzonti di senso utili a mitigare fantasmi e paure, aprendo cioè “la questione squisitamente etica relativa alla reciproca relazione tra comunità sociale, comunità biologica e comunità morale”[3].
È sempre Haraway, da un altro bel libro, tradotto e curato da Angela Balzano per DeriveApprodi, a parlarci de Le promesse dei mostri. Nell’introduzione, la curatrice ci consiglia di radicare nei nostri corpi alcune leggi, da Asimov alla lingua coniata da Haraway che così sintetizzo: non siamo autosufficienti; siamo una collettività complessa e articolata; di essa fanno parte entità biomeccaniche, microbi, virus, circuiti elettrici, specie da compagnia, piante selvatiche, cyborg; insieme agli umani ci sono creature altre, creature mostruose e inappropriate/ibili.
Il razzismo verso il contagiato-mostro, questa volta nordico, di Milano, di Codogno, veneto, che ci parla nell’intervista televisiva dall’altro lato della strada, scombina le carte. Ciascuno di noi è davvero, sempre, lo straniero di qualcun altro. Lo zombie è tra noi, il mutante è tra noi, noi che lo temiamo nella nostra pretesa di essere immortali in un mondo infetto. Eppure, i nostri saperi situati, femministi, sanno che tutto va articolato, che nulla riguarda mai “solo” il mondo oggettivo, o la natura o la scienza.
Sono preoccupata dalle semantiche della difesa dall’invasione che sono state utilizzante in questi giorni e ancora mi aiuta Haraway a trovare le parole giuste: “La perfezione del Sé vittorioso, interamente dedito a difendersi, è una figura agghiacciante che connette, nella cannibalizzazione della terra e nella teleologia evolutiva dell’extraterrestrialismo post apocalittico, il terrore della ameba che fagocita l’uomo che viaggia nello spazio”. Confini istituzionalizzati da biomedicina, guerra e mercati. Untori e stigma sociali. Solitudine e necessari silenzi, come già è stato per altre infezioni, pensiamo per un attimo seriamente all’HIV ai suoi esordi.
Allora, le immagini riproposte a rullo dalla task force operativa della protezione civile impegnata nella battaglia contro il virus per difendere quella forza produttiva che è il corpo, ispirati a culture militari, mi fanno sentire con ancora maggior dolenza, la fragilità del mio corpo e dei corpi che ho intorno. Malati, mostrificati, tenuti a distanza, soli. Sento la follia di un apparato di potere che si autopromuove attraverso le infinite trasmissioni televisive pensate per “un intrattenimento famigliare”.
Questo corpo, come strategia di accumulazione viene reso “un sé dedito alla difesa” mentre nel frattempo il sistema sanitario pubblico rischia il collasso, espropriato di risorse e saperi che da decenni vengono incanalate verso il privato e mentre anche noi crolliamo stremati, proclamandoci felici (?) per una settimana di inaspettata sospensione dal lavoro regalata dal virus. Ma nella precarietà generalizzata chi paga, se non lavori? Da dove verrà il reddito? Nella performatività perenne del narcisimo digitale e della finanziarizzazione dell’esistenza (la sanità in prima linea), che cosa smette veramente di muoversi?
Non si tratta di sfidare scioccamente i pericoli. Ma forse vale la pena di capire a fondo questo ennesimo meccanismo di estrazione vitale: di che cosa ci parla, che nuovo tipo di sperimentazione sociale è, come si evolverà? Nel frattempo la paura frantuma vissuti, codici e linguaggi comuni. Come non ci riconoscessimo più. Ecco, temo che di questo si rischi di morire un po’ di più.
 
NOTE
[1] Cfr. Pablo Calzeroni, Narcisimo digitale. Critica dell’intelligenza collettiva nell’era del capitalismo della sorveglianza, Mimesis, Milano 2019
[2] Gaia Giuliani, Zombie, alieni e mutanti. Le paure dall’11 settembre a oggi, Le Monnier, Firenze 2015
[3] Ibidem, pag. 15
 
Questo articolo è stato pubblicato da Effimera il 1 marzo 2020
Immagine in apertura: Travis Louie, Ritratti di mostri in epoca vittoriana, “Miss Miniver e il suo drago”

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