di Silvia Napoli
Unione Reno Galliera non ci sta ad essere collocata tra le zone un po’ così: sì, vabbe’, i terremoti, ogni tanto qualche esondazione causa i mala tempora che occorrono un po’ per tutti, ma queste pianure d’acqua hanno anche fascino e oasi verdi da vendere, tradizioni amministrative democratiche da illo tempore, tantissimi gioiellini architettonici e monumentali e museali da promuovere, biblioteche pubbliche attivissime e soprattutto un patrimonio di storia delle forme dell’economia non indifferente che oggi, grazie ad una leva di amministratori pubblici giovani e motivati sta vivendo una straordinaria rivisitazione comunitaria condivisa. Un vero e proprio storytelling che si avvale delle più moderne forme di raccolta, archiviazione e comunicazione.
In tutto questo ci sono anche i teatri, quelli canonici che sembrano deliziosi carillon, gli auditorium modernisti, gli oratori ristrutturati, le case del popolo e i centri sociali chiamati a nuova vita dopo un periodo di stanca. Uno dei punti di forza della rinascita culturale di questi territori, quella cosa cioè, per cui vale la pena muoversi dal centro metropolitano per andare a vedere eventi ad Argelato oppure a Bentivoglio oppure ancora Pieve di Cento, castello d’Argile, per un totale di 8 comuni, in villa o in teatro o tra il popolo è aver voluto con tenacia creare un disegno, un filo di Arianna motivazionale ed emotivo prima ancora che intellettuale tra tutti i punti della mappa intorno ad un concetto, quello di piazza aperta, l’Agorà di antica memoria, come punto alto di una democrazia che vorremmo matura ma sempre giovane e rinnovata nell’inclusività e nella voglia di sperimentarsi. Anche correndo qualche ragionato rischio.
L’associazione di promozione culturale e teatrale che ha raccolto la sfida di creare un cartellone itinerante di eventi e spettacoli fortemente innovativo pensato con e sulla l comunità, ma non per una supposta comunità di provinciali da intrattenere, che ha definito miracolosamente un perimetro mobile, plasmabile della sua Agorà, identificabile per la forza dello stile e della proposta, niente affatto identitario in senso restrittivamente localistico, si chiama Liberty ed ha la sua direzione artistica in Elena Digioia. Un passato da teatrante e organizzatrice indipendente, poi una esperienza di training molto significativa all’assessorato Guglielmi, una brillantissima vocazione da project manager culturale emersa con il lungo e produttivo lavoro su Elfriede Jelineck, per approdare tre anni orsono ad una vita in realtà mai cosi nomadica come da quando Agorà ha messo radici.
Perché DiGioia, con il garbo e il puntiglio e la competenza che le sono propri, è una che va davvero in giro per la Penisola a visionare non tanto le novità del momento, quanto gli esiti e le elaborazioni ultime di quei talenti più consoni di volta in volta a rafforzare la potenza di un discorso che non si interrompe mai e che fa della sua porosità ai tempi e della circolarità di espansione i suoi punti di valore DiGioia entra in dialogo con gli artisti, ma parla anche tanto con gli amministratori, che molto spesso sono donne da queste parti, parla con le colleghe ai timoni di altre straordinarie stagioni e crea sinergie dentro Agorà, vedasi ad esempio Castelmaggiore con le programmazioni di Teatro Biagi D’Antona, si dota di collaboratrici efficienti ed appassionate e infine parla davvero con tutti, perché la stagione sia per tutti motivo di festa e di stimolo e non fiore all’occhiello di una nicchia di operatori e di politici.
Cosi, tutta questa dedizione e questo impegno personali hanno creato nel tempo una rete di sponsorizzazioni, contribuzioni, patrocinii, sostegni non da poco e soprattutto un pubblico trasversale, come si usa dire talvolta impropriamente e che invece qui ha realmente senso definire in questo modo. Il sistema delle Unioni metropolitane, ha punti di slancio ed altri di debolezza, momenti di risveglio civico e momenti di campanilismo e mugugno:forse è ancora presto per fare un bilancio e non è certo questo articolo la sede per farlo, certo è che un forte e soprattutto orientato investimento in politiche culturali in questo momento ha un valore simbolico forte per la proposizione pubblica di questo assetto.
In questi giorni, dopo una stagione intensa iniziata in gennaio e vissuta di corsa, Agorà si avvia al termine, per la verità penalizzata da queste condizioni meteo proibitive che già mesi fa in queste terre “basse” hanno assunto connotati di calamità naturale(?): così per esempio, mentre scrivo si annuncia già lo spostamento emergenziale di questo divertissement titolato GRAn Glasse, mix imprevedibile di teatro d’avanguardia, Compagnia gli Omini con il punk da balera della formazione di Mirco Mariani e Moreno il biondo, EXTRaliscio.
Avrebbe dovuto essere un festone all’aperto, celebrativo di un’idea di popolare forse un po’ diversa da quella che ambiguamente ci viene rimandata e imposta mediologicamente di continuo, tale da risultare becera o comunque sospetta e in odore dei più retrivi visceralismi e lo scenario quello classico della villona di campagna. Ci dovremmo accontentare del Teatro di castello d’Argile, ma il divertimento sarà assicurato e il brindisi garantito. Per la verità, se questa è la chiusura della stagione, in programma, domani pomeriggio, per i più coraggiosi e motivati è prevista l’ultima tappa per adesso del ciclo coreografico infinito Le stagioni invisibili, nato per l’appunto da una ideazione congiunta tra Fabrizio Favale/compagnia di danza Le Supplici, Digioia e Andrea A. La Bozzetta e in tutta evidenza, concepita come un’apertura, un nuovo inizio, in ossequio alla circolarità spaziotemporale:insomma, il cartellone si conclude, ma Agorà è sempre lì, a fare da controcanto al genius loci di volta in volta posizionato in un leggiadro pioppeto o viceversa in un suggestivo sito di archeologia industriale.
Luoghi noti e meno di un paesaggio incantatore, anche negli aspetti più brutali dei suoi elementi, come potrebbe accadere domani domenica 19 maggio, per esempio all’Oasi La Rizza di Bentivoglio, stante i ripetuti allerta meteo lanciati dalla protezione civile, che comunque non dovrebbero scoraggiare la compagnia ad una prova estrema di resistenza quasi titanica:ma non è forse questo in fondo il nostro controverso rapporto con l’habitat naturale?
Ma Agorà naturalmente è anche una visione e un’ambizione e un’idea di servizio alle ragioni della buona cultura e cosi si sono potute vedere a prezzi popolari e titolo gratuito vere chicche d’autore Come Roberto Latini che vive, abita ed agita con ferocia e tenerezza, davvero umane, troppo umane, i versi di Mariangela Gualtieri o Kepler452 su una creazione pensata per l’anniversario di Ustica dai toni sorprendenti o ancora la perizia pedagogica di Angela Malfitano alla prova degli ormai consolidati laboratori dell’Istituto Keynes e soprattutto una raffica di nuovi lavori che vorremmo tutti vedere completati o riproposti e messi in circuitazione, a sancire il prossimo traguardo:quello produttivo, particolarmente accarezzato e atteso, data la condizione di decentramento in partenza, in realtà per nulla sostanziale, a ben vedere. Perché è vero che le sfide offrono anche opportunità a chi sa intravedere i margini di libertà che concedono.
Cosi l’anteprima a firma Maurizio Cardillo, vista a Pieve di Cento, titolata Il sadico del Villaggio e dedicata a Marcello Marchesi, frutto di un lavoro certosino di scandaglio delle opere di una delle più anomale figure italiane di intellettualeantiintellettuale del novecento, prestato al mondo dell’advertising pionieristico ai tempi dei media generalisti, grazie al sapere autorale del nostro e al suo rigore interpretativo, cosi familiarizzante e straniante insieme, visto in sequenza al diversissimo e lirico lavoro di Latini, risultavano un continuum riflessivo perfetto sulla meravigliosa disperazione della condizione umana.
Perché tra una battuta e l’altra, un Carosello e l’altro, questo umorista full-sense esce dagli archivi dimenticati di un’Italia in bianco e nero, canzonettara e ottimista, proiettata alle magnifiche sorti e progressive da un apparecchio televisivo in salotto, nonché dalle cifre di un PIL, che quasi moralisticamente s’ha da scontare,ma sotto sotto gretta, prevenuta e timorosa di se stessa (forse tuttora cosi?!), per disegnarsi come una personaggio cogitabondo pirandelliano o un maschio velleitario alla Brancati, passato al setaccio del contenimento posturale e fisico beckettiano che rende frustrazione e morte i prossimi approdi plausibili: tutto concepibile dentro la biografia di Marchesi, che al culmine del successo professionale e commerciale dopo una lungo percorso che lo aveva visto scrivere per tutti i migliori quale Totò, incontra il suo destino fatale in un banale incidente marino, giocando con la sua prima e unica figlia, concepita in quella mezza età, esorcizzata in un noto refrain che la definiva bella e dunque ancora buona di chance per “matusa” e “tardone”, in barba ai nostri stereotipi di politicamente corretto, ma di cui lui aveva in realtà quasi vergogna. Insomma, la maschera tragica in definitiva di un maschio italiano sospeso nella rappresentazione e nella vita tra Sordi, Mastroianni, Walter Chiari, vite dolci e vite agre.
Ancora dopo questa sorta di animal triste, un lavoro di cui caldeggiamo il compimento produttivo è, viceversa un’opera tutta al femminile, che è per ora ufficialmente una semplice mise en lecture, in realtà è molto di più, direi una vera partitura riscritta e concertata per quattro attrici, cucita e adattata da Anna Amadori, un’attrice autrice giunta a splendida maturazione interpretativa, da una piece di Fabrice Melquiot, mai tradotta e rappresentata in italia prima, che è, a sua volta, una libera liberissima rivisitazione in chiave femminista, come l’autore stesso dirà a fine rappresentazione dalla casa di Bernarda Alba di Garcia Lorca. Quello cui si è assistito è stato in realtà un vero spettacolo, ennesimo esempio di una esperienza di lungo corso, vagliata nelle precedenti vite progettuali di DIgioia, esperienza di collaborazione con studenti e docenti del Dipartimento di interpretazione e traduzione dell’università di Bologna e con, in questo caso, Alliance Francaise, traslata virtuosamente nel contesto di Agorà.
Una sinergia di cui sentiamo veramente il bisogno per rinfrescare il nostro panorama drammaturgico e che ci fa sentire un po’ piu confortevolmente europei: chi ha detto che non si possa essere crudi, diretti, politicamente anche scorretti, pur di giungere ad un risultato di verità, senza cadere in volgarità e gergalismi? Le migliori leve della scena di area francofona e Melquiot, che ora dirige un teatro a Ginevra è tra queste, come pure le migliori penne, di area anglofona, dimostrano che è possibile servirsi di parole anche violente che fanno e debbono fare paura e insieme sono alte, si levano sopra il rischio di facili identificazioni e ammiccamenti, rischio oggi cosi pertinente a tante forme di rappresentazioni egoriferite di cui tutti possiamo essere artefici, restituendoci alla bellezza della parola detta, del corpo vibrante in scena, cassa di risonanza e medium collettivo, chissà forse di possibile liberazione, un po’ come accade alle giovani donne al leggio, magnificamente rese nella loro accanita vulnerabilità, dopo Amadori in veste panterosa di madre strafatta eppure sempre Coraggio in bilico sapiente tra Magnani e una Musa almodovariana, da Consuelo Battiston, Giuliana Bianca Vigogna, Marina Occhionero.
Tre sorelle, variamente provenienti dall’ultima scena innovativa italiana, che, in sotto testo cercano la loro Mosca come possono e che non si dimenticano tanto facilmente. Una storia estrema di lotta fra i sessi che prevede forse per ora, un assentarsi delle Donne dal consesso maschile, ma chissà, potrebbe verificarsi uno sbocco catartico, come succede al pubblico in sala, dove si è palpabilmente percepito un probabilmente calcolato disorientamento maschile. Melquiot scrive con riferimenti alti spinto dall’urgenza della cronaca insanguinata, ricordando in qualche modo nel suo lavoro giochi di crudeltà tipici per esempio di certa filmografia di Hannecke e mai è stato cosi evidente come sia importante comprendere i perché di sensibilità e sentimenti diffusi nel vecchio continente, foss’anche negli aspetti meno esaltanti, più barbarici e regressivi. In questo senso, la piazza globale di Unione Reno Galliera è aperta alla volontà di sapere e noi ci sposteremo volentieri per frequentarla ancora.