Economia circolare: riciclo e inceneritori, dove finisce la carta

29 Marzo 2019 /

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di Stefano Feltri
Facile essere d’accordo con Greta Thunberg, la 16enne svedese che ogni venerdì protesta per un mondo migliore. Ma quando si tratta di tradurre in scelte concrete quei nobili obiettivi, le cose si complicano: parti dalla raccolta della carta e arrivi al dibattito sulla necessità di costruire nuovi inceneritori. Marzo è il mese del riciclo della carta ed è in questo campo, in cui l’Italia è una sorprendente eccellenza, che si riassumono le sfide e i dilemmi di quella nuova filosofia verde che va sotto il nome di “economia circolare”. Una direttiva europea del 2015 impone all’Italia di raggiungere una quota del 75 per cento del riciclo di imballaggi nel 2025, ma già nel 2017 eravamo arrivati al 79,8 per cento. Ora resta l’obiettivo 2030 dell’85 per cento.
Dall’usa e getta alla raccolta differenziata
Nel 1985 in Italia si raggiunge l’apice dell’utilizzo degli imballaggi usa e getta, il consumismo anni Ottanta comincia a presentare il suo prezzo occulto in termini di discariche sature. Un gruppo di aziende del settore cartario crea quindi il Comitato per l’imballaggio ecologico (Comieco) che vuole recuperare i materiali a base di cellulosa: dai giornali ai cartoni. Il sistema poi si raffina negli anni Novanta, con il decreto Ronchi del 1997. Al posto di una catena che si regge sull’asse produttore-consumatore-discarica si cerca di costruire un sistema integrato in cui tutti sono coinvolti nel determinare il destino finale di un prodotto.

Nasce il Conai, Consorzio nazionale imballaggi, un soggetto privato senza fini di lucro che raccoglie 850.000 aziende che producono o usano imballaggi (divise per sei categorie, acciaio, alluminio, plastica, legno, vetro, carta e cartone). In vent’anni Conai ha avviato al riciclo 50 milioni di tonnellate di rifiuti da imballaggio cosa che – secondo le stime – ha evitato l’immissione nell’aria di 40 milioni di tonnellate di anidride carbonica e la costruzione di 130 discariche di dimensione media.
Il principio è che il primo utilizzatore di un imballaggio deve pagare al consorzio un contributo che servirà a finanziare lo smaltimento. Nel caso della carta il contributo è salito a gennaio 2019 da 10 a 20 euro a tonnellata. Conai incassa il contributo e lo gira a Comieco che, a sua volta, lo ridistribuisce ai 5.500 Comuni con i quali è in convenzione e che così vengono indennizzati dei costi che comporta la raccolta differenziata. Attività che, stimano gli esperti del settore, occupa in media due minuti al giorno dell’italiano medio.
Ma sono due minuti da cui dipende un intero settore in crescita: su 100 tonnellate immesse sul mercato dal settore cartario italiano, 55 derivano da materiali di riciclo. La media nazionale di carta riciclata per abitante è intorno ai 54 chili all’anno, ma con grandi differenze, al Nord si arriva sopra i 70, nel Mezzogiorno – dove la situazione un po’ sta migliorando – siamo ancora sotto i 40.
Investimenti e brevetti per la sfida alla plastica
Più carta si ricicla, più il settore attira investimenti: l’industria cartaria investe 420 milioni in Italia ogni anno, ma quel che più conta è che tra 2010 e 2015 sono stati concessi 316 nuovi brevetti per gli imballaggi in carta e cartone ma soltanto 126 per quelli in plastica. È vero che ci sono le bioplastiche, che riducono drasticamente l’inquinamento (l’Italia può contare su Mater Bi di Novamont), ma si è affermata una nuova sensibilità per cui, per la prima volta, la plastica va azzerata, non sostituita da plastica più sostenibile. Molti Comuni stanno facendo a gara per conquistare il titolo di “plastic free”: a Livorno il sindaco Filippo Nogarin ha installato nuove fontane che hanno ridotto l’acquisto di bottigliette d’acqua; a Roma c’è una proposta di togliere tutta la plastica dai catering del Comune; vari altri sindaci Cinque Stelle, da Follonica a Pachino (Palermo), hanno promulgato ordinanze per azzerare il ricorso da parte della pubblica amministrazione a plastiche monouso. Il ministero dell’Ambiente, per dare l’esempio, ha iniziato a sostituire i distributori di bottigliette con dispenser di acqua.
In questa guerra alla plastica si aprono spazi per la carta riciclata. In una ricerca per il consorzio Comieco, il professore di Management al Sant’Anna di Pisa Marco Frey ha censito alcune delle innovazioni che puntano a conquistare un mercato che finora non esisteva: quello degli imballaggi di carta che sostituiscono la plastica. Dal 2015, per esempio, l’azienda Bio-On sta sperimentando degli imballaggi che sembrano tetrapak ma mischiano carta e bioplastica, sono impermeabili e si riciclano più facilmente. C’è un progetto di doggy bag all’italiana che si chiama “rimpiattino”, un imballaggio accattivante che dovrebbe servire a introdurre in Italia un principio americano verso cui c’è ancora una certa diffidenza: il diritto di portare a casa il cibo (e il vino) che viene ordinato al ristorante ma non consumato per intero. Il Consorzio Bestack e l’Università di Bologna stanno poi lavorando a un “imballaggio attivo”, cartone ondulato che contiene un additivo di “oli essenziali” che permette di aumentare fino a tre giorni la vita commerciale (in gergo shelf life) dei prodotti alimentari. Minore la turnazione sugli scaffali, minore il consumo di imballaggi e lo spreco di cibo.
La ribellione della Cina e i termovalorizzatori
La tecnologia aiuta ad aumentare la vita degli imballaggi e a ottenere qualità migliori con minore consumo di materia prima, i comportamenti virtuosi dei consumatori permettono di riciclare sempre più carta. Ma alla fine qualcosa da smaltire in modo tradizionale resta sempre. Anche perché c’è un limite al numero di volte che un imballaggio o un giornale può essere riciclato. Il 7 per cento del macero è composto da materiali non riciclabili, in gergo pulper. E non ci sono molte soluzioni possibili: o finisce in discarica o viene bruciato. Fino al 2018 il pulper, come molti altri scarti di altri settori, finiva in Cina. Ma nell’estate del 2017 Pechino ha notificato all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) che non era più disposta a fare da pattumiera dell’Occidente: ora importa carta da riciclo soltanto se ha sostanze contaminanti inferiori allo 0,5 per cento del totale. Colpa degli inglesi che non sanno fare la raccolta differenziata e mandavano in Cina troppe schifezze, spiegano le aziende italiane.
La conseguenza positiva della svolta cinese è che in Italia apriranno tre nuovi impianti per gestire quel macero che prima andava in Cina. Lo squilibrio storico che vedeva il settore italiano esportare macero e importare prodotto finito, pagando così due volte, si riduce di anno in anno. C’è però un effetto negativo, come spiega Andrea Bianchi di Confindustria: “Se sale il costo dello smaltimento del pulper si blocca tutta la filiera del riciclo”. Tradotto: se alle imprese del settore cartario costa troppo liberarsi della parte non riciclabile, avranno ben pochi incentivi a investire sulla catena del riciclo.
Perché i vantaggi della maggiore efficienza vengono neutralizzati dall’aggravio finale. Per questo un po’ tutti nel settore, dalle cartiere ai sindacati ai consorzi, chiedono che si “chiuda il ciclo”. Tradotto: che vengano creati inceneritori (nel mondo della carta preferiscono chiamarli “termovalorizzatori”) dove bruciare gli scarti. Così le imprese potrebbero risparmiare sui costi di smaltimento – la discarica è un salasso – e produrre energia con cui alimentare il resto della lavorazione o che comunque può essere venduta all’esterno. Il sogno è il modello scandinavo in cui le imprese hanno il proprio inceneritore e il “ciclo” del rifiuto si chiude in casa: tutto quello che si può riciclare viene riciclato, il resto diventa energia. Ma è assai difficile spiegare a quegli stessi ambientalisti che propugnano la raccolta differenziata che il necessario complemento debbano essere degli inceneritori.
Il sindaco di Livorno Nogarin è uno dei più attivi nell’associazione dei Comuni nel promuovere il riciclo, ma non ha alcuna intenzione di fare marcia indietro su uno dei suoi temi preferiti: “L’inceneritore di Livorno chiuderà nel 2021, è una decisione ponderata e abbiamo lavorato a lungo per prepararla, nessun posto di lavoro è a rischio”. Fine della discussione. La Lega la pensa diversamente: a un recente convegno di Comieco, il presidente della commissione Ambiente della Camera, il leghista Alessandro Benvenuto, ha promesso al settore “impianti per la corretta gestione degli scarti di processo da sottrarre alla discarica”. Cioè più inceneritori. Il sottosegretario al ministero dello Sviluppo, Andrea Cioffi (M5S), ha garantito il contrario.
Questo articolo è stato pubblicato dal Fatto Quotidiano il 27 marzo 2019

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