I cambiamenti climatici e lo spazio vitale

5 Dicembre 2018 /

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di Guido Viale
Nel giorno di apertura della Cop 24 di Katowice il clima è il grande assente dalle politiche dei governi di tutto il mondo. Non se ne parla, se non per registrare l’abbandono dell’accordo di Parigi da parte di qualche Stato. Neppure la verde Germania riesce a staccarsi dal suo carbone. Non è mancata la mobilitazione popolare che, anche di recente, ha visto a Londra e in varie città della Germania una forte partecipazione per imporre un cambio di rotta; una partecipazione scarsa, però, nei paesi dell’Europa mediterranea.
E questo nonostante in Italia siano in corso tante vertenze ambientali e sociali tutte indirettamente legate al tema del clima: NoTav, NoTap, NoTriv, NoTerzovalico, Noautostrade, NoGrandinavi, NoMuos, ecc. Ciò che è invece presente in tutte le politiche governative e, ovviamente, nelle prossime elezioni europee, sull’onda di uno sciovinismo e di una xenofobia che stanno travolgendo il mondo, sono le migrazioni.
Ci sono molti legami tra quella assenza e questa presenza: nessi che politica, economia e cultura non sanno o non vogliono cogliere. Innanzitutto, nell’inconscio di ciascuna o ciascuno di noi, politici o gente comune, c’è la sensazione che con la globalizzazione il mondo non si sia allargato ma ristretto: non c’è più spazio per tutti; soprattutto se si pensa a quello che consideriamo il nostro spazio vitale, che in realtà è spazio ambientale: non solo casa, auto, fabbrica o ufficio, scuola, strade, aria, acqua, cibo e cure mediche; ma anche spiagge, campi da sci, seconde case, posti auto, vacanze, ecc.

È una sensazione fondata, che spinge molti a stringere i cordoni della borsa: chi è dentro è dentro, chi è fuori è fuori. Caso mai c’è da darsi da fare per non essere il prossimo, o la prossima, a essere buttata fuori. Ben pochi si sforzano di capire quanto di sostenibile ci sia ancora in quel nostro spazio vitale e quanto se ne possa salvaguardare cambiando il modo di accedervi.
In secondo luogo, pochi si sono resi conto di quanto la globalizzazione, e soprattutto i cambiamenti climatici – che ne sono l’aspetto principale, più ancora di quanto lo sia l’unificazione dei mercati – abbiano dislocato i fronti del conflitto sociale: che è anch’esso mondiale.
Da un lato, la cupola (l’1, o lo 0,01 per cento) dei signori di un capitalismo finanziario, estrattivo e predatorio che domina il pianeta. Dall’altro, la moltitudine sterminata dei popoli e delle comunità che ne subiscono le conseguenze; e di cui profughi e migranti che cercano di varcare, da soli o in carovana, i confini di un mondo protetto non sono che un’avanguardia.
Ma pochi hanno realizzato che, anche entro quei confini “protetti”, i settori che più lottano e meglio si organizzano, nonostante la condizioni di inferiorità in cui si trovano, come i lavoratori della logistica, includono quasi solo migranti: che condividono una continuità esistenziale sia con coloro che si trovano al di là di quei confini, o che li hanno appena varcati, sia con un esercito di precari “autoctoni”, giovani e non più giovani, come i fattorini del cibo o le operatrici dei call-center schiave della gig economia: figure che hanno cominciato a costruire una loro rete internazionale là dove i sindacati hanno costituito rappresentanze burocratiche.
Nel mezzo c’è un mondo di lavoratori autoctoni preoccupati più della fine del mese che della fine del pianeta perché ignorano i nessi dell’una con l’altra; su di loro, in mancanza di ogni prospettiva di emancipazione, fanno presa, in modi sempre più feroci, le sirene della paura e quelle di un “sovranismo” che, in qualsiasi forma si presenti, sconfina sempre in razzismo, esplicito o sottaciuto: «Prima i nostri!».
Ben pochi collegano le migrazioni ai cambiamenti climatici e ai conflitti creati da quel restringimento degli spazi vitali e ambientali; o legano la lotta ai cambiamenti climatici a una prospettiva di emancipazione per tutti: cittadine e cittadini autoctoni delle ex cittadelle del benessere e popoli affamati della Terra. Ma quel legame c’è, lo ha spiegato Naomi Klein: la difesa dei territori è una rivoluzione, l’unica in grado di garantire vita e benessere alle comunità che li abitano, ma anche di segnalare le tante cose da fare per cambiare il mondo.
Con un lavoro più libero e più utile per tutti, nativi e migranti, nei campi di una inderogabile conversione ecologica degli assetti produttivi: energia, edilizia, agricoltura, alimentazione, mobilità, armi, assetti del territorio, salute, istruzione, cultura. Ma di tutto questo gli imprenditori “del fare” riuniti a Torino per imporre il Tav non sanno e non vogliono sapere niente.
Solo con una radicale conversione ecologica, diffusa su tutti i territori a partire da altrettante mobilitazioni locali – basate sul conflitto, ma soprattutto sulla sperimentazione di nuove forme di aggregazione e di gestione della propria quotidianità – si possono ricostituire spazi ambientali per tutti.
Mentre una circolazione regolata di genti libere di venire, di tornare e ritornare, alla ricerca della salvezza o di un futuro tra noi, ma che hanno lasciato famiglie e comunità nei territori devastati da cui provengono, è la sola cosa che possa fornire anche a quei paesi le forze, la cultura, le professionalità e i contatti per una rigenerazione dei loro habitat e dei loro governi. Cioè, di tutta la Terra.
Questo articolo è stato pubblicato dal quotidiano Il manifesto il 4 dicembre 2018

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