Renzi o gli altri, qualcuno nel Pd è di troppo

19 Settembre 2018 /

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di Nadia Urbinati
A seguire i social, si ha l’impressione che delle cene (elitarie o popolari) proposte, promesse e disdette da alcuni leader Pd interessi ben poco. Le uniche note di commento sono: per recriminare questi “signori sistemati” che poco o nulla sanno di quel che succede fuori; per esprimere un sospiro di sollievo per lo scioglimento di un partito nato gracile; per dire basta, e chiedere che si smetta di parlare di quel che non c’è per dedicarsi a capire che cose può esserci.
Il Pd appartiene al passato. È fuori del presente. Quel che nel presente c’è e occupa le pagine dei giornali (più per curiosità da tabloid che altro) è l’opinione dei soliti noti del Pd, che sembra siano la sinistra, che siano il partito, che siano l’opposizione. Fanno tutto questo malissimo eppure hanno solo loro voce rappresentativa. È possibile sperare che si facciano da parte? Deve essere possibile. Ma c’è il Congresso. Il quale sembra diventare ogni giorno che passa la zattera di salvezza per tutti. E questa è la condizione peggiore, perché questo congresso post 4 marzo dovrebbe servire a rifondare.
È la condizione peggiore perché, appunto, è visto e sarà usato come una zattera: ciascuno dei naufraghi cercherà di occupare il posticino che lo salverà, a costo di buttare a mare il vicino. E resteranno i più scaltri, i più cinici, i più amorali – coloro che riusciranno a far fuori gli altri. Nel mors tua vitamea non si radica alcuna impresa collettiva. È come lo stato di natura di Hobbes, dal quale al massimo emergono bande di predoni, che non sono proprio la soluzione alla condizione di massima incertezza e insicurezza.

Ecco perché riporre aspettative nel congresso è perdente. Perché non esiste tra i congressisti un progetto comune. Esistono progetti di conquista ed esclusione. E le primarie – altra iattura che ha contribuito a creare guerre intestine senza fine – sanciranno le divisioni, poiché chi vincerà non verrà riconosciuto da chi perde. Le elezioni sono infatti condizioni di pace civile solo se c’è fiducia minima di base tra i contendenti – se si accetta di ubbidire a chi vince, sapendo che non sarà una vittoria assoluta. Ma ci vogliono garanzie per le minoranze, e ci vuole saggezza e leadership nella maggioranza – condizioni che nel PD homo homini lupus non ci sono.
Che fare? Come si può riuscire ad azzerare questo cumulo di errori che si moltiplicano e intensificano con il passare dei giorni? Propongo di riflettere seriamente e senza animosità, ovvero con mente lucida, su due opzioni.

  • Opzione 1: Matteo Renzi dovrebbe uscire e con i suoi e le sue fedeli costituire un nuovo partito. Personalmente penso alla ragionevolezza di questa opzione da quando Renzi ha conquistato la dirigenza del Pd, ma soprattutto da quando ha cominciato a voler vincere e a perdere per voler vincere (il 4 dicembre 2016). Il suo stile, i suoi contenuti e le sue aspirazioni poco si accordavano con la logica del collettivo alla quale nonostante tutto il Pd si rifaceva, almeno in una sua parte. Un partito liberal-progressista a guida Renzi&Co. avrebbe liberato energie nella zona centrista, e avrebbe tolto il tappo che intrappola le varie energie del Pd. Il quale è stato costretto a subire il dominio di Renzi, anche dopo le sue dimissioni da segretario. Tutto immobile e quindi tutto in veloce cancrena. Non è troppo tardi – se Renzi avesse piglio, coraggio e leadership farebbe il gesto prima; senza prepararsi a fare guerriglia al congresso. Ora riuscirebbe a fare un partito, forse piccolo, ma unito e con una prospettiva futura poiché non è vero che “tutti gli italiani” sono di destra e salviniani. I moderati non hanno a questo punto alcun partito rappresentativo decente. Se Renzi invece andrà a congresso riuscirebbe a fare solo una fazione, e quindi a continuare la guerra civile.
  • Opzione 2: Resta Renzi e gli altri escono. La prima uscita dal partito era già avvenuta, ma essendo stata sbagliata nei tempi ha prodotto un’uscita fallimentare, una fazione anch’essa; tra l’altro senza alcuna seria volontà di costruire un partito perché comunque fazione del Pd, e quindi con il desiderio di tornare a espugnare la cittadella. L’uscita di LeU in vista di un ritorno, quindi, nella speranza di tornare in un partito diverso. Fallimento. Però, se coloro che non si riconoscono in Renzi&Co. avessero coraggio, lungimiranza e leadership lascerebbero la casa (che comune non è già più) per costruire altrove; costruire daccapo, ma con nuovo entusiasmo, come nelle fasi costitutive. Si avrebbe un’unità di intenti; si avrebbe finalmente la determinazione di buttare a mare quel pessimo e fallimentare Statuto (perché gli editori si rifiutano di stampare il manoscritto di Antonio Floridia, fermo da mesi e che prova quanto quello Statuto sia stato responsabile del “Pd partito spagliato”?). I sentimentalismi sulla casa espropriata da fratellastri e sorellastre sono un poco ridicoli. Qui si tratta non di case di qualcuno ma di un partito, uno strumento per creare consenso e conquistare voti, per vincere una battaglia durissima con un nemico corazzato quale la Lega.

Entrambe queste opzioni rispecchiano una visione molto chiara: il partito è l’anima della democrazia, che senza partiti declina, perché o diventa terra di divisioni e lotte tra minoranze agguerrite non disciplinate, o diventa terra di conquista di caudilli e capipopolo. Partito forte sta insieme a democrazia solida. E chi è convinto del valore della democrazia deve volere un partito forte e efficace, organizzato e con un programma di intenti condiviso. Entrambe le opzioni qui proposte riflettono questa convinzione, per impedire che le fazioni facciano a brandelli quel che resta della possibilità di fare un partito.
Questo articolo è stato pubblicato sull’HuffingtonPost.it il 18 settembre 2018

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