Italia e la crisi: la democrazia dell'algoritmo

1 Giugno 2018 /

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di Andrea Baranes
Lo spread è la differenza tra il rendimento dei Btp a 10 anni e quello degli analoghi titoli tedeschi. In pratica misura quanto l’Italia sia considerata a rischio. La Germania è presa a riferimento perché ultra-sicura. Se i mercati pensano che l’Italia sia solida e possa ripagare il proprio debito senza problemi, il governo potrà offrire un basso tasso di interesse. Se al contrario siamo percepiti come rischiosi e inaffidabili, il rendimento sui titoli, ovvero lo spread, salirà.
A differenza di quanto potrebbe sembrare leggendo i titoli allarmistici sui media, un aumento dello spread non implica un rischio immediato per lo Stato o un brusco peggioramento dei conti pubblici. Bot o Btp hanno una durata (mesi o anni rispettivamente). Quando stanno per scadere, se il debito pubblico non cala il governo deve emettere titoli nuovi per sostituire quelli in scadenza. Se lo spread è alto, questi nuovi titoli avranno un rendimento maggiore, ovvero solo su quelli lo Stato dovrà pagare interessi più alti. Progressivamente più soldi pubblici vanno quindi a pagare gli interessi sul debito e peggiorano i nostri conti, ma l’impatto di uno spread alto o basso si manifesta su periodi medio-lunghi.
Impatti su banche e imprese
Gli impatti a breve si hanno per le banche. Se sale lo spread e lo Stato deve emettere titoli con un alto rendimento, quelli analoghi e già in circolo perdono di valore. Per semplificare, se domani arrivano BTP che rendono il 5%, quelli che ho acquistato l’anno scorso e che rendevano solo il 2% valgono meno. Ancora prima il valore cala, e bruscamente, se con l’aumento dello spread circolano voci di un possibile default. Può essere un problema per i risparmiatori, ma lo è prima di tutto per le nostre banche. Queste, anche se negli ultimi tempi hanno progressivamente ridotto l’esposizione, hanno comunque a bilancio centinaia di miliardi in titoli di Stato.

Un peggioramento dei conti per un sistema bancario già fragile rischia di riversarsi sulle imprese che ricevono meno finanziamenti e a costi più alti. Per le imprese i problemi sono anche altri: se sale lo spread e quindi circolano titoli che danno elevati rendimenti, le imprese che si finanziano tramite emissione di obbligazioni dovranno fronteggiare la concorrenza di tali titoli, il che si traduce in maggiori costi e difficoltà. Questo senza considerare che voci di un possibile default impattano il “sistema Paese” e quindi a cascata non solo lo Stato ma anche le imprese nostrane.
Siamo in crisi?
La situazione quindi è così preoccupante? A guardare i fondamentali no. Siamo in un contesto molto diverso da quello dell’ultima impennata dello spread, nel 2011. Erano gli anni successivi alla bolla dei subprime e alla conseguente crisi finanziaria internazionale, in un momento di fortissima recessione e con prospettive a dire poco nere all’orizzonte. Oggi l’Italia è in relativa ripresa, in particolare riguardo PIL ed economia. Sembra difficile giustificare l’allarmismo di questi giorni. Difficile se si guarda ai soli fondamentali dell’economia, meno analizzando il funzionamento dei mercati e degli elementi su cui basano il loro insindacabile giudizio.
Probabilmente la prima regola dell’economia è quella della domanda e dell’offerta. Se tutti vogliono qualcosa il prezzo sale, se nessuno la vuole il prezzo scende. O meglio, cosi dovrebbe funzionare. Perché con il dominio della finanza sull’economia e della speculazione sulla finanza, sempre più spesso sono le aspettative o peggio ancora le voci di aumento o diminuzione di domanda e offerta a guidare i prezzi. Se in giro si dice che un’impresa – o uno Stato – potrebbe avere dei problemi, tutti vorranno venderne i titoli. I mercati cercano di anticipare i fondamentali dell’economia, e fin qui tutto bene. Ma se sulla base delle aspettative e delle voci di peggioramento tutti vendono, per la legge della domanda e dell’offerta il prezzo crolla. Se crolla il valore dei titoli e nessuno si fida più, i problemi iniziano davvero. Le aspettative si auto-realizzano e la profezia si auto-avvera.
La speculazione e l’instabilità
La speculazione si nutre di queste aspettative e soprattutto dell’instabilità dei prezzi. Nessuno specula sui titoli tedeschi perché il loro valore è praticamente immutabile, non posso estrarre profitti aspettandomi di comprarli a poco e venderli a tanto grazie a oscillazioni sui mercati. Se però l’Italia è in una fase di instabilità, ecco che la cosa si fa interessante. Li posso comprare a un certo prezzo e sperare di rivenderli a uno molto diverso entro pochi giorni, realizzando così un ampio margine di profitto. Sui mercati è oggi possibile scommettere tanto sul rialzo quanto sul ribasso di un titolo. Il problema è che se in molti si lanciano a scommettere sul valore di un dato titolo, l’enorme afflusso di capitali genera volatilità. Questa volatilità, ovvero la possibilità che il prezzo vari molto in poco tempo, è proprio quello che attira altri speculatori, il che aumenta l’instabilità, nuovamente in una spirale che si auto-alimenta.
Attenzione, qui non stiamo solamente dicendo che sono le aspettative sul futuro a guidare i prezzi, ovvero che i mercati anticipano l’andamento dell’economia. Il problema centrale è che sono proprio gli speculatori a generare o per lo meno ad amplificare le oscillazioni e la volatilità che consente agli stessi speculatori di realizzare profitti.
Lupi e greggi
Ma possono pochi scommettitori influenzare in questo modo l’andamento dei mercati, in particolare per una delle maggiori economie del pianeta come l’Italia? La risposta, almeno in parte è si, perché contemporaneamente entrano in gioco altri meccanismi. Il primo è l’effetto gregge. E’ noto che una regola fondamentale del commercio (e della finanza) è compra a poco e vendi a tanto. Purtroppo i piccoli risparmiatori solitamente si comportano all’esatto opposto. Quando un titolo è sulla bocca di tutti e il prezzo è altissimo perché tutti lo vogliono, ecco che buoni ultimi arrivano i piccoli risparmiatori. In maniera speculare, è facile che in situazioni di difficoltà si scateni il panico sui mercati con una corsa a vendere, provocando un crollo ulteriore.
E’ in questo modo che si creano e poi scoppiano le bolle finanziarie, e che spesso piccole oscillazioni si trasformano in inarrestabili valanghe. Chi è in posizione di forza compra per primo (a prezzi bassi) e vende per primo (ai massimi). I piccoli risparmiatori arrivano per ultimi, comprando ai massimi, e solitamente rimangono con il cerino in mano quando arrivano i disastri.
Nel merito, se l’Italia è in una fase di instabilità sale lo spread; questo alimenta timori di futuro peggioramento dei conti pubblici; alcuni investitori venderanno i titoli italiani; aumenta l’offerta e cala la domanda di titoli; per lo Stato italiano è più difficile piazzarli; deve aumentare l’interesse offerto; ovvero sale lo spread; il che alimenta i timori… E via con l’ennesima spirale che si avvita su sé stessa.
Che voto mi hanno messo?
Una delle preoccupazioni principali viene però da un’altra parte. E’ vero, come accennato in precedenza, che l’aumento dello spread non implica un peggioramento immediato dei conti pubblici. Però l’Italia può essere giudicata meno affidabile o più rischiosa non solo dai mercati, ma prima ancora dalle agenzie di rating. Parliamo delle agenzie (di fatto un oligopolio in cui quattro aziende si contendono quasi tutto il mercato) che “danno un voto” agli Stati, alle imprese e ai loro prodotti finanziari. Una tripla A segnala il massimo dell’affidabilità, poi progressivamente si scende con vari “+” e “-” verso le B o ancora più giù. Il voto riflette la rischiosità dell’emittente, e quindi si traduce nel rendimento che questo dovrà offrire agli investitori. Ovviamente, tra due titoli che danno lo stesso rendimento tutti sceglierebbero quello dell’emittente con il voto più alto, o in altri termini, più basso è il voto maggiore è l’interesse che devo offrire per finanziarmi.
Per l’Italia in particolare i problemi non sono unicamente il maggiore o minore tasso di interesse. Siamo solo un paio di gradini sopra il voto spesso indicato come investimento “junk” ovvero speculativo (o letteralmente “spazzatura”). Se le agenzie di rating ci assegnassero al livello “junk”, la Banca Centrale Europea non comprerebbe più i nostri titoli di Stato. In questi anni lo spread si è mantenuto basso anche perché la BCE, con il quantitative easing, ha acquistato titoli italiani, alimentando la domanda e quindi portando a una riduzione di interessi. Se questo acquisto si interrompesse di colpo, per l’Italia sarebbero problemi.
Ancora, il voto delle agenzie di rating è centrale per gli algoritmi che regolano le strategie di innumerevoli investitori. I fondi pensione devono tutelare i risparmi dei lavoratori, e per regolamento non possono investire in strumenti eccessivamente rischiosi. La maggior parte di loro non può comprare titoli di Stato al di sotto di un voto minimo. Se per l’Italia il giudizio delle agenzie di rating peggiorasse ancora, i programmi nei computer dei gestori di tutto il mondo darebbero indicazione di vendere. Crollo immediato della domanda, con tutte le conseguenze immaginabili. E’ tramite simili meccanismi che, anche se lo spread non implica un peggioramento immediato dei nostri conti pubblici, di fatto siamo sotto il pesante ricatto dei mercati.
In questo quadro appare a dire poco preoccupante la decisione di Moody’s di dichiarare lo scorso 25 maggio che l’Italia era sotto osservazione per un possibile declassamento, con una procedura al di fuori del normale percorso di aggiornamento del voto dato agli Stati. Il giorno cruciale in cui si decideva il nominativo di un possibile premier e la formazione di un governo, una delle principali agenzie di rating pensava bene di mandare questo messaggio a mercati e investitori.
La tempesta perfetta?
Quanto scritto si interseca con altri elementi ancora. Un’incertezza sulle future decisioni della BCE, soprattutto con l’uscita di scena di Draghi tra pochi mesi e il possibile arrivo di un “falco” alla guida delle politiche monetarie europee. Ancora a monte, la crisi italiana si inserisce in un quadro non proprio ottimista sul futuro: sono sempre di più gli analisti che segnalano il possibile scoppio di una nuova crisi, o comunque di un brusco riallineamento dei corsi dei mercati finanziari. Con il moltiplicarsi di tali notizie, molti investitori potrebbero avere iniziato, in silenzio, il cosiddetto “flight to safety”, ovvero a spostare i propri investimenti verso titoli più sicuri, vendendo quelli che in una situazione di difficoltà dei mercati potrebbero oscillare di più. In questo momento, in prima fila ci sono ovviamente i nostri titoli di Stato.
In tutto questo discorso ovviamente ha un peso, e un peso decisamente rilevante, la situazione politica. La crisi istituzionale, i dubbi – che siano più o meno fondati – sulla volontà di un nuovo governo di uscire dall’euro, l’instabilità e la debolezza mostrate in questi giorni sono chiaramente alla base di quanto sta avvenendo. Su questo si incardinano però meccanismi squisitamente finanziari che incrementano le incertezze e le difficoltà iniziali, generando essi stessi instabilità. Più che i meccanismi in sé, colpisce osservare lo spropositato potere che i mercati finanziari hanno nel condizionare le scelte politiche e ancora prima come l’intera attenzione sia rivolta non alla crisi istituzionale in sé ma alle conseguenze che questa può avere in termini di spread e reazioni sui mercati.
Conclusioni: come uscirne?
Sarebbe possibile spezzare i meccanismi descritti fino a qui? La risposta per fortuna è positiva, anche se complessa. Nel breve dobbiamo togliere benzina al fuoco della speculazione, il che significa evitare che un passaggio politico si trasformi in una crisi istituzionale tanto lunga quanto conflittuale. E’ su questo che sembrano insistere tanto i politici quando i media, chiedendo stabilità e una soluzione rapida. Giusto, ma parliamo unicamente di come limitare gli effetti dello strapotere della finanza sulla politica, non di rimuoverne le cause.
Per non fermarci alla superficie, è necessario introdurre di regole diverse, tanto per la finanza privata quanto per quella pubblica. Parliamo di controlli sui movimenti di capitale, di ridiscutere alla base i meccanismi che regolano il debito pubblico (ne abbiamo parlato qui), di funzionamento del sistema bancario e più in generale di misure che riaffermino alla base il primato della politica sulla finanza.
Basta guardare l’incredibile discrepanza sui tempi – i mercati pretendono soluzioni politiche nel giro di pochissimi giorni e la democrazia non può permettersi di non ubbidire – per rendersi conto dell’urgenza e della profondità del lavoro da fare per ribaltare gli attuali rapporti di forza. La speranza è che almeno questa – ennesima – crisi possa servire per aprire uno spazio politico di riflessione. Purtroppo il desolante livello di un dibattito che si limita a “con noi o contro di noi” tra opposte fazioni appare lontanissimo da questo obiettivo, ed è questo probabilmente l’elemento più preoccupante dell’attuale situazione.
Questo articolo è stato pubblicato da Sbilanciamoci.info il 31 maggio 2018

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