Catalogna: il nuovo voto e le risposte minacciate

20 Dicembre 2017 /

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di Maurizio Matteuzzi
Per aggiungere un tocco finale di suspense manca solo l’improvvisa comparsa all’aeroporto di El Prat de Llobregat, alle porte di Barcellona, di Carles Puigdemont. L’effimero ex-presidente della Repubblica di Catalogna, profugo a Bruxelles dal 29 ottobre e inseguito da una sfilza di accuse pesantissime (da ribellione e sedizione a scendere: pena da 15 a 30 anni) ed evidentemente spropositate (tanto è vero che la giustizia belga non le ha prese neppure in considerazione) con cui il governo di Mariano Rajoy e la servizievole giustizia spagnola hanno voluto castigarlo per l’avventuroso azzardo del referendum del primo ottobre e della DUI, la Declaración Unilateral de Independencia, approvata dal Parlament il 27 ottobre.
Lo stesso giorno in cui il governo del Partido Popular, sostenuto dai partner di destra – i Ciudadanos di Albert Rivera – e dall’opposizione “di sinistra” – il Psoe di Pedro Sánchez-, in applicazione dell’articolo 155 della Costituzione del 1978 ha destituito il governo e il parlamento catalani, azzerato l’autonomia della Catalogna, di fatto occupandola, e indetto elezioni regionali per il 21 dicembre.
Se da qui a giovedì Puigdemont rientrasse a Barcellona per farsi arrestare, sarebbe un coup de théâtre spettacolare e una brutta immagine per la Spagna democratica: due dei principali favoriti alla carica di President in carcere in quanto – senza alcun dubbio – detenuti politici (l’altro è Oriol Junqueras, numero due della amministrazione destituita e leader della Esquerra Republicana de Catalunya a cui, unitamente ad altri tre esponenti indipendentisti, il giudice nega perfino la libertà su cauzione per il “rischio che commettano atti violenti”).

Anche se Puigdemont, come ha dichiarato da Bruxelles, non dovesse rientrare prima di giovedì 21 il quadro è già abbastanza intricato e drammatico di suo. Due erano in sostanza gli interrogativi che presentava l’imposizione dell’articolo 155, mai usato prima dalla morte di Franco: come avrebbero reagito i politici e la popolazione della Catalogna, che fino ad allora avevano mantenuto la mobilitazione e la protesta su canali assolutamente pacifici, all’occupazione manu militari? E cosa sarebbe accaduto se gli indipendentisti o i repubblicani dovessero vincere anche le elezioni di dicembre?
Al primo interrogativo questi 50 giorni hanno dato una risposta di cui il governo e il blocco “unionista” PP-PSOE-Ciudadanos possono essere soddisfatti: l’applicazione del 155 è stata più liscia di quanto ci si potesse aspettare tanto che il 2 dicembre Rajoy ha già dato per morto il separatismo: “La narrativa dell’indipendentismo non funziona più, nessuno l’appoggia”. Ma Rajoy e i suoi compari, e anche l’imprudente re Filippo di Borbone che nel momento più critico anziché acqua ha gettato benzina sull’incendio, devono stare attenti a non sottovalutare un sentimento indipendentista che non è un’invenzione come quella della Padania o del Veneto ma, comunque lo si giudichi, ha radici lontane e profonde.
Nel 2015 il blocco monarchico-spagnolista diceva che l’indipendentismo non avrebbe mai ottenuto la maggioranza assoluta e invece l’ha ottenuta (anche se non nel voto ma nei seggi del Parlament); diceva che il referendum del primo ottobre non si sarebbe fatto e invece si è fatto. E secondo una recente inchiesta l’indipendenza è ancora l’opzione del 48.7% dei catalani, la metà della popolazione. Se l’avventurosa e pasticciata “independencia exprés” si è mostrata impraticabile, “el procés” verso l’indipendenza o quantomeno verso uno stato autenticamente federale è difficile credere che si fermerà o che scomparirà.
Il problema vero è il secondo interrogativo: cosa succederà se il 21 dicembre tornasse a vincere il blocco indipendentista-repubblicano? A precisa domanda, Rajoy ha detto che il 155 resterà in vigore fino a che non si sarà insediato il nuovo governo catalano. Poi? E se il governo fosse ancora capeggiato da Puigdemont o da Junqueras?
Nuove elezioni finché non vincono “i nostri”, ossia i loro? Un 155 permanente finché i catalani non mettono la testa a posto? I sondaggi sono molto confusi e contraddittori, probabilmente poco attendibili e incapaci di intercettare “il voto nascosto”. C’è stato un certo rimescolamento in questi 50 giorni, il quadro è instabile ma un dato è chiaro: sarà difficilissimo fare un governo. Il fronte indipendentista si è rotto, ERC (centro-sinistra), Junts per Catalunya del “presidente Puigdemont” (centro-destra), i radicali di sinistra della CUP (dati in netto calo) si presentano separati ma a quanto pare con qualche chance di riconquistare i 68 voti del parlamento necessari per la maggioranza assoluta.
Nel blocco monarchico-unionista il prevedibile crollo del PP andrà a beneficio dei Ciudadanos, che contendono a ERC il ruolo di partito più votato, mentre il Partito Socialista Catalano, pur squassato dall’abbraccio mortale del PSOE con il PP sull’articolo 155, mostra qualche segno di recupero. In mezzo (no all’indipendenza, sì al diritto di decidere all’interno di una Spagna riformata in senso federale) la nuova sinistra di Catalunya En Comù-Podem, il movimento della popolare sindaca di Barcellona Ada Colau e la branca catalana di Unidos Podemos di Pablo Iglesias, che nella vana attesa di Godot (al secolo un Pedro Sánchez che si stacchi da Rajoy e si unisca alla sinistra), in una situazione così polarizzata ha sofferto (leggi rotture interne), soffre e probabilmente soffrirà di questo suo ruolo di “bisagra”, ossia di cerniera.
Cosa farà se i suoi voti saranno necessari per raggiungere in parlamento una maggioranza assoluta (quindi per formare il governo) che in apparenza non hanno né il blocco indipendentista né il blocco unionista e neanche un improbabile blocco trasversale?
Chi ha già deciso cosa si deve fare invece è la grande borghesia catalana che invoca la “legalità” e la “stabilità” ed è scesa in campo a sostegno del blocco “costituzionalista” Ciudadano-PP-PSC. Altrimenti, questo il senso del discorso, continuerà la grande fuga delle imprese verso Madrid e altri lidi spagnoli (già 3000 dal 2 ottobre, fra cui 6 delle 7 società catalane quotate in Borsa).
È caccia all’ultimo voto. Ognuno fa appello al “voto utile” per il proprio partito e cala i propri assi. Ciudadanos ha chiamato il trombone Vargas Llosa; il PSC ha riesumato il desaparecido Rodríguez Zapatero; Podem ha avuto il sostegno di Naomi Klein e dell’ex ministro greco Varoufakis.
Difficile fare un pronostico del voto di giovedì e ancor di più del post-voto. A meno che gli immancabili e onnipotenti hacker russi, accusati da Rajoy di interferire anche nella crisi catalana, non abbiano un piano…

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