di Steven Forti
Il 20 settembre potrebbe essere uno di quei giorni che cambia il corso degli eventi. Nella crescente tensione tra il governo spagnolo e quello catalano in vista del referendum unilaterale di autodeterminazione convocato dal Parlamento di Barcellona per il prossimo 1 ottobre, la Guardia Civil – la polizia spagnola – ha perquisito una dozzina di sedi del governo regionale catalano, requisito materiale relativo all’organizzazione del referendum e arrestato 14 alti funzionari della Generalitat catalana.
Nei giorni precedenti aveva proibito conferenze a favore del referendum, perquisito alcuni giornali e magazzini in cui si sarebbe stampato materiale necessario alla realizzazione della consultazione e chiamato a dichiarare gli oltre 700 sindaci che avevano dato la loro disponibilità per l’1 ottobre. Il premier Mariano Rajoy ha deciso di usare la mano dura con l’obiettivo di dimostrare che lo Stato spagnolo non tollererà oltre la sfida unilaterale catalana.
“Non si terrà nessun referendum”, aveva ripetuto il leader del Partido Popular: “difenderemo lo Stato di diritto con tutti i mezzi che ci dà la Costituzione. Anche quelli che non vorremmo usare”. E dalle dichiarazioni è passato ai fatti. L’obiettivo? Che non si realizzi il referendum. E, da questo punto di vista, sembra che ci sia riuscito: con che schede elettorali andranno a votare i catalani l’1 ottobre? Dove ci saranno delle urne? Che seggi apriranno? Ma quella di Rajoy sarà, molto probabilmente, una vittoria pirrica.
La risposta della piazza, infatti, è stata immediata. Migliaia di catalani si sono concentrati tutta la giornata di mercoledì davanti alle sedi del governo regionale perquisite e vi sono rimasti fino a notte fonda. Ci sono stati momenti di tensione, ma non si è mai arrivati allo scontro. E il govedì è successo lo stesso davanti al Palazzo di Giustizia di Barcellona in cui hanno dichiarato gli arrestati. Dato importante: non c’erano solo indipendentisti in piazza, ma anche molte persone che sono scese in strada per difendere la democrazia e l’autonomia catalana e per condannare la mano dura del governo del PP.
La sindaca di Barcellona Ada Colau ha invitato i cittadini a manifestare per difendere le istituzioni catalane ed ha parlato di “scandalo democratico” per definire l’operazione della Guardia Civil. Per il leader di Podemos Pablo Iglesias è una “vergogna” che ci siano “prigionieri politici” nella Spagna del XXI secolo in riferimento ai funzionari catalani arrestati (più della metà ora sono stati rilasciati, dopo aver dichiarato davanti al giudice). I deputati dei partiti catalani nelle Cortes di Madrid hanno abbandonato l’emiciclo, dopo una durissima critica a Rajoy. Nelle piazze di tutta la Spagna si sono organizzate manifestazioni di protesta: da Madrid a Saragozza, da Bilbao a La Coruña fino a Valencia e all’Andalusia.
Questo è forse il dato più importante: in un solo giorno Rajoy ha rafforzato il governo catalano, ha regalato la bandiera della rivendicazione democratica agli indipendentisti, ha unificato in buona parte la società catalana e, basta vedere le prime pagine dei quotidiani di questi giorni, ha internazionalizzato una questione che fino ad ora aveva avuto un limitato riscontro fuori dalle frontiere spagnole. E, altro elemento chiave, ha aperto una latente crisi di Stato. Se si votasse ora, quanti catalani voterebbero “sì” all’indipendenza pur non essendo indipendentisti? E se ci fosse una nuova mozione di censura nelle Cortes, come quella fallita di Podemos in primavera, cosa farebbero il PSOE e i nazionalisti baschi? Voterebbero ancora contro Iglesias? Tutto sta cambiando molto rapidamente, non solo in Catalogna. O forse no: tutto potrebbe rimanere uguale, dopo delle giornate di grande indignazione. Le prossime settiamane saranno cruciali. Facciamo però un passo indietro per capire come si è arrivati fino a questo punto.
L’accelerazione degli indipendentisti: un referendum unilaterale di autodeterminazione
Dalla prima grande manifestazione indipendentista dell’11 settembre del 2012, che si apriva con lo striscione “Catalogna, nuovo stato d’Europa”, sono passati quasi cinque anni. Da allora il dialogo politico è stato inesistente per una questione, come quella della rivendicazione indipendentista catalana, che riguarda una regione di 7,5 milioni di abitanti che vale il 19% del Pil spagnolo. E di occasioni ce ne sarebbero state tante, tenendo poi conto del lungo ciclo elettorale che ha vissuto il paese iberico negli ultimi anni: due elezioni regionali in Catalogna (novembre 2012 e settembre 2015), un macro-sondaggio in forma di processo partecipativo riguardo all’indipendenza (9 novembre 2014), due elezioni generali (dicembre 2015 e giugno 2016) e delle elezioni amministrative (maggio 2015) che hanno cambiato per la prima volta il panorama politico spagnolo consolidatosi durante la transizione alla democrazia di fine anni Settanta, con la fine del bipartitismo PP-PSOE, la vittoria di liste civiche nate dal basso in grandi città come Madrid e Barcellona e, già nel giugno del 2014, l’abdicazione del re Juan Carlos [1].
Dopo mesi di incertezza, di dichiarazioni altisonanti degli uni e degli altri, ma di poche decisioni politiche, ad inizio giugno il governo indipendentista catalano ha deciso di convocare per il primo ottobre un referendum unilaterale di autodeterminazione. “Vuole che la Catalogna sia uno stato indipendente in forma di repubblica?”, questa la domanda posta ai catalani dal governo guidato da Carles Puigdemont. Durante l’estate, nonostante gli avvisi del governo di Madrid, i dirigenti indipendentisti hanno continuato decisi su questa strada. A inizio settembre, in due convulse sessioni parlamentari in cui l’opposizione è uscita dall’aula, la Camera catalana ha approvato la Legge del Referendum di Autodeterminazione e la Legge di Transitorietà Giuridica e di Fondazione delle Repubblica. Approvate con una semplice maggioranza assoluta e non con una maggioranza qualificata, come è necessario per una semplice riforma dello Statuto d’Autonomia, le due leggi determinano che in caso di vittoria del “sì” si proclamerebbe immediatamente la “Repubblica catalana”. Nelle leggi non si stabilisce una maggioranza necessaria e un livello di partecipazione minima alla consultazione e non si rispetta nessuna delle condizioni stabilite dalla Commissione di Venezia, l’organo consultivo del Consiglio d’Europa che si occupa delle questioni relative alla democrazia e al diritto, tanto riguardo al rispetto della Costituzione del paese di appartenenza – la Costituzione spagnola non contempla un referendum di autodeterminazione di un suo territorio – quanto riguardo al calendario – il referendum dovrebbe essere convocato con un anno di anticipo – o all’imparzialità delle istituzioni.
Questioni che ha ribadito anche la Commissione Europea – soprattutto il presidente Juncker – quando è stata interpellata al riguardo. È indubbio, dunque, che il referendum sia incostituzionale e che il governo spagnolo, appoggiato in questo dal PSOE e Ciudadanos, lo consideri illegale. Immediato dunque il ricorso da parte di Madrid al Tribunale Costituzionale che ha sospeso le due leggi e alla Procura Generale che ha richiesto l’apertura di indagini.
Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti. Una situazione prevedibile da tempo, ma a cui nessuno ha tentato seriamente di trovare una soluzione politica. Da un lato, gli indipendentisti, che rappresentano meno del 50% della società catalana, che continuano sulla strada unilaterale del referendum, nonostante le sospensioni del Tribunale Costituzionale; dall’altro lato, il ricorso unicamente ai tribunali da parte del governo di minoranza di Rajoy e l’uso della mano dura fino all’intervento della Guardia Civil.
L’accelerazione del governo catalano si deve essenzialmente a due ragioni. In primo luogo, all’assenza di un dialogo serio con il governo di Madrid, che dal 2012 si trincera nel rispetto della Costituzione, senza fare nessuna offerta ai catalani (riforma della Carta Magna, maggiore autonomia, migliore finanziamento alla regione, ecc.), anche perché il Partido Popular sa che l’anticatalanismo gli porta voti nel resto della Spagna. In secondo luogo, al cul de sac in cui si trova il governo guidato da Puigdemont, formato da una grande coalizione patriottica, Junts pel Sí (JxS), che riunisce la destra del Partit Demòcrata Europeu Catalá (PDeCAT), autonomista fino al 2012, e il centro-sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya (ERC), e che è appoggiato dagli indipendentisti anticapitalisti della Candidatura d’Unitat Popular (CUP). Gli indipendentisti vinsero infatti le “elezioni plebiscitarie” del settembre 2015 – ottenennero una maggioranza in seggi, ma non in voti (47,8%) – promettendo l’indipendenza in 18 mesi (già conclusi): il referendum non faceva parte del programma elettorale ed è rientrato in gioco solo a settembre dello scorso anno, per evitare che la CUP facesse cadere il governo.
L’obiettivo dell’accelerazione è stato dunque duplice: da un lato, dimostrando alle basi indipendentiste – che avevano manifestato una certa stanchezza dopo cinque anni di continue mobilitazioni – che si fa sul serio, superare la partecipazione del macro-sondaggio del 9N del 2014 (2,3 milioni di partecipanti, di cui 1,8 milioni, pari a meno del 30% degli aventi diritto, votò a favore dell’indipendenza), convertendo il referendum in una sorta di “manifestazione” contro l’immobilismo del PP; dall’altro, provocare una reazione del governo spagnolo – come la sospensione dell’autonomia regionale, prevista dall’art. 155 della Costituzione, o il pratico “commissariamento” del governo catalano, possibilità quest’ultima che si è effettivamente realizzata – nella speranza di ampliare la base indipendentista e di internazionalizzare la causa catalana.
Puntare sul tot o res [“tutto o niente”], e prolungare infinitamente il procés sobiranista, presentando l’indipendenza come la panacea di tutti i mali, è servito poi al governo catalano per evitare di fare i conti con una società che è stata colpita duramente dalla crisi economica e che ha sofferto le politiche di austerità applicate con zelo non solo dal PP, ma anche dalla stessa formazione di Puigdemont che in questi ultimi anni non ha smesso di smontare quel che restava del Welfare State esistente in Catalogna. Una società quella catalana, per di più, che sembra molto più eterogenea e stratificata di quel che credono i partiti al governo, sia a Barcellona che a Madrid, come hanno dimostrato continuamente sia le elezioni celebrate in questi ultimi anni sia diversi sondaggi di opinione.
I possibili scenari
Molte cose sono cambiate però il 20 settembre. Gli interrogativi sono moltissimi in questo momento. In primo luogo, si terrà il referendum il prossimo 1 ottobre? Difficile da dirsi. Sembra che Rajoy abbia assestato un duro colpo all’organizzazione della consultazione. Sicuramente, nel caso in cui i catalani possano votare, non si tratterà di un referendum legale né riconosciuto internazionalmente. I due scenari più probabili sono o un nuovo macrosondaggio con seggi presenti solo su una parte del territorio catalano (oltre un centinaio di sindaci ha dichiarato che non cederà gli spazi alla Generalitat per il referendum) o una grande mobilitazione a favore del referendum, del diritto di decidere e dell’indipendenza, dove parteciperanno anche molte persone che non sono indipendentiste, ma che si mobiliteranno contro il governo del PP.
Sarà cruciale dunque la lettura a posteriori che si farà degli avvenimenti e, di conseguenza, sapere chi vincerà la “battaglia della narrazione”. Che interpretazione si imporrà? Per il governo catalano è una sfida tra la democrazia dei catalani (che vogliono votare) e l’autoritarismo del governo spagnolo (che impedisce il diritto di decidere di un popolo). Per Madrid, invece, si tratta di un’opposizione tra il rispetto della legge e la difesa dello Stato di diritto e un governo regionale che salta le regole democratiche e che impone la via unilaterale. E che ruolo avranno le istituzioni europee? Fino ad ora non erano intervenute. Ma adesso? Puigdemont ha pubblicato un articolo su The Guardian dove parla della Spagna come di uno stato “autoritario e totalitario” che ha sospeso l’autonomia catalana; la commissione interparlamentare di Westminster ha criticato duramente le azioni decise dal governo di Rajoy; pochi giorni fa Prodi, Fassino e Bobo Craxi hanno chiesto pubblicamente che si riaprano canali di dialogo…
La situazione è di impasse e di estrema incertezza. Le responsabilità sono di entrambi, tanto del governo catalano come di quello spagnolo, che non hanno mai seriamente voluto dialogare utilizzando la politica per trovare una soluzione. Il fatto è che la crisi catalana non è altro che un’espressione, quella più visibile attualmente, della crisi del sistema spagnolo, una crisis del Régimen del 78. Lo ripete Pablo Iglesias. Lo dice Ada Colau. E difatti sono gli unici che cercano di proporre qualcosa, mentre il PSOE non va oltre la timida proposta di una commissione parlamentare per valutare una possibile riforma della Costituzione. È un po’ poco al punto in cui si è arrivati. La sindaca di Barcellona ha ribadito la necessità di un referendum accordato con lo Stato, con delle garanzie e un riconoscimento internazionale.
Il leader di Podemos è sulla stessa linea: diritto di decidere dei catalani nell’ambito di uno Stato spagnolo plurinazionale. Si inizia questa domenica a Saragozza con un’assemblea di parlamentari e sindaci di tutta la Spagna, lanciata da Iglesias e da Xavi Domènech, portavoce di En Comú Podem, la confluenza catalana alleata di Podemos. L’obiettivo? Trovare una soluzione alla questione catalana. Parteciperanno tutti i partiti, tranne il PP, il PSOE e Ciudadanos. Può essere un inizio. Vedremo.
Perché, ora come ora, è difficile, estremamente difficile, pensare che il 2 ottobre, dopo tutto quello che sta succedendo, possano ricostruirsi i ponti che sono stati bombardati nell’ultimo lustro. Ci vuole coraggio e serietà. E un’altra caratteristica che manca attualmente a chi governa a Madrid e Barcellona: saper guardare oltre l’orizzonte e non pensare solo alle prossime elezioni.
NOTA
[1] Nello specifico vedasi, FORTI, STEVEN; LO CASCIO, PAOLA: “Catalunya Calling. La questione catalana, la Spagna e la crisi europea”, Tetide. Rivista di studi mediterranei, nº 3 (2016)
Questo articolo è stato pubblicato da Micromega online il 22 settembre 2017