Il Piano sociale e sanitario regionale 2017-2019 tra approssimazione, demagogia e neoliberismo

17 Luglio 2017 /

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Ospedali e sanità
di Gianluigi Trianni
Oggi 11 luglio sarà presentato in Assemblea legislativa (già Consiglio) regionale il Piano Sociale e Sanitario Regionale 2017-2019 (Pssr 2017-2019), nella versione licenziata lo scorso 4 luglio dalla Commissione politiche per la salute e sociali, con il voto favorevole dei gruppi Pd e Misto e l’astensione del M5S.
Secondo la legislazione regionale vigente il Pssr definisce “gli indirizzi per la realizzazione e lo sviluppo del sistema integrato socio sanitario”, è di durata triennale e comunque con efficacia fino all’entrata in vigore di quello successivo. Quindi il Pssr 2017-2019 è il documento che fissa l’insieme di principi, scelte e regole, cui saranno vincolati gli atti di programmazione (= definizione degli obbiettivi ed allocazione delle risorse) sociosanitaria in regione Emilia Romagna nel prossimo triennio.
Tale piano proposto dalla Vicepresidente e Assessore alle politiche di welfare e politiche abitative M. Gualmini e dall’Assessore alle Politiche per la Salute S. Venturi ha acquisito parere favorevole:

  • dal Consiglio delle Autonomie locali;
  • dalla Conferenza regionale del Terzo Settore;
  • dalle Organizzazioni Sindacali,


e costituirà parte integrante e sostanziale dello Statuto della Regione Emilia-Romagna. Questa pedante ricostruzione della essenza, degli estensori e dei favorevoli al Pssr 2017-2019 necessita per richiamare le responsabilità politiche dirette di quanti lo hanno proposto, e di quanti lo hanno accettato, per quello che è un documento neoliberista, demagogico ed approssimativo che sarà usato come “uno degli strumenti più rilevanti dell’azione politica della Giunta regionale”. e la “leva e nello stesso tempo il motore di una nuova visione di welfare”.
Perché definiamo questo Pssr neoliberista, demagogico ed approssimativo? Cominciamo dal giudizio di neoliberista.
Tale giudizio si basa sui due principi richiamati a fondamento dell’intero impianto del piano e quindi, per effetto diretto, dello Statuto e della programmazione sociosanitaria in Emilia Romagna nei prossimi tre anni:

  • a. Il Welfare di Comunità/Comunitario, sostitutivo del Welfare State, cioè del welfare pubblico assicurato dallo Stato centrale e dalle sue articolazioni locali, le regioni, le provincie ed i comuni;
  • b. l’Universalismo Selettivo, sostitutivo dell’Universalismo senza aggettivi, come tratteggiato dalla L. 833/’78, istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale in attuazione della Costituzione.

Per quanto attiene il Welfare di Comunità/Comunitario esso viene indicato come mission/obbiettivo già nel paragrafo 2 del Pssr 2017-2019: “2. Verso un welfare comunitario, dinamico e delle responsabilità” (pag. 6), paragrafo che termina con l’esplicita ed al contempo fumosa dichiarazione: “L’assunzione di responsabilità sociale da parte del mondo della produzione non solo non profit, ma anche delle aziende e dei soggetti for profit, diventa un elemento fondamentale del welfare regionale e della promozione del benessere comune. A questo scopo occorre inserire dentro la programmazione strumenti per far confluire nel sistema risorse aggiuntive dei soggetti di cui sopra, per consolidare e innovare la rete dei servizi” con la quale ci si impegna a favorire il cosiddetto welfare aziendale/contrattuale, quello che a detrimento della remunerazione del lavoro dipendente e della contribuzione delle aziende alle entrate fiscali con riduzione dei fondi nazionali pubblici per le politiche sociali e per la sanità, istituisce fondi integrativi/assicurativi con i quali i lavoravoratori/cittadini paghino le prestazioni sociosanitarie che il pubblico non può più dare per il crescente definanziamento, relativo e reale, del welfare pubblico.
Nello stesso paragrafo precedentemente si era definito (cfr nota [1] il ruolo pubblico, cioè delle AUSL e dei Comuni come non più di erogazione diretta dei servizi, che viene prevista evidentemente appaltata con convenzioni ad enti “profit” e “non (?) profit”, cioè a privati, ma di assegnazione delle quote di mercato (= la gestione pubblica nella fase della presa in carico dell’utenza) e di garanzia dell’uniformità delle prestazioni erogate dai singoli erogatori privati in competizione tra loro (= che i soggetti e le organizzazioni non pubbliche che a vario titolo partecipano alla gestione ed erogazione dei servizi si sentano sostenuti e tutelati e possano orientare la loro azione all’interno di regole chiare e trasparenti, soprattutto dal punto di vista della qualità delle prestazioni fornite).
Siamo quindi ad affermare un principio/programma di pura privatizzazione, non solo del momento erogativo delle prestazioni ma, nei fatti, ed in maniera necessariamente crescente, anhe nei momenti di programmazione dei servizi erogativi, di definizione dei loro costi per la collettività e della loro remuneratività per gli erogatori privati.
Per quanto attiene l’universalismo selettivo esso viene rivendicato nel paragrafo “Politiche per la qualificazione e l’efficientamento dei servizi” come criterio “per il quale si dà priorità di accesso a chi, per condizioni fisiche, economiche o di altro tipo, ne abbia maggiormente bisogno”. Il che significa che chi non è in condizioni di povertà assoluta o relativa, in caso di bisogno, in aggiunta a quanto già contribuisce con le tasse alle entrate fiscali nazionali, regionali e comunali con le quali vengono finanziato il servizio sanitario nazionale e quello sociale pubblico, deve contribuire aggiuntivamente con ticket sanitari, spesso superiori al costo di produzione delle presazioni assistenziali, o con “compartecipazioni” variamente formalute ed estese alle spese per prestazioni di assistenza sociale.
I due principi del “Welfare di Comunità /comunitario” e dell'”Universalismo selettivo” sono stati introdotti nella cultura politico amministrativa in Italia dal ministro M. Sacconi del governo Berlusconi 2008 – 2011, con i due libri, “La Vita Buona nella Società Attiva – Libro Verde sul futuro del modello sociale – 25 luglio 2008”, con il quale quel governo di centrodestra, apri una consultazione in tema di lavoro, salute e politiche sociali che trasferì nel successivo “La Vita Buona nella Società Attiva – Libro Bianco sul futuro del modello sociale – Maggio 2009”:

  • il Welfare di Comunità /comunitario (cfr nota [3] come un modello di governance che garantisca la sostenibilità finanziaria secondo il principio di sussidiarietà, secondo il quale alla cura dei bisogni collettivi provvedono direttamente i privati cittadini ed il pubblico, nelle sue articolazioni centrali e periferiche, interviene solo in forma sussidiaria, di aiuto,
  • l’Universalismo selettivo (cfr nota [4] come un obiettivo strategico dei prossimi anni.

Entrambi i principi, il Welfare di comunità/comunitario e l’universalismo selettivo vengono definiti (cfr. nota [5] come espressione dell’affermazione dell’economia sociale di mercato.
È appena il caso di segnalare che nella teoria dell’economia sociale di mercato è incardinato il principio del liberalismo economico, quindi del ricorso al privato operante sul mercato, anche nella produzione e nel finanziamento/acquisizione di servizi sociosanitari, e quindi della sussidiarietà orizzontale, in opposizione alle teorie keynesiane di intervento dello stato in economia e di welfare state ed alle prassi politico – amministrative delle sinistre in Italia e soprattutto in Emilia Romagna dal dopoguerra all’inizio degli anni 2000, quando comincia a farsi strada anche in Emilia Romagna il concetto di welfare di comunità/comunitario.
Il conceTto (e la prassi), infatti di welfare di Comunità è già alla base del 1° Piano sociale e sanitario della Regione Emilia-Romagna approvato dalla Assemblea legislativa il 22 maggio 2008, presidente della regione V. Errani ed assessore alla sanità G. Bissoni, che asserisce di perseguire lo “sviluppo di reti assistenziali a cui partecipano servizi diversi e, al tempo stesso, permette di coinvolgere, valorizzando le singole autonomie, tutti i soggetti – Regione, Enti locali, Aziende sanitarie, terzo settore, privato profit, forze sociali”.
Gli effetti negativi sulla funzionalità del sistema sanitario regionale in Emilia Romagna, già condizionato dalla riduzione del finanziamento del Ssn e dei trasferiemnti ai Comuni operata dei governi di Centro destra e di Centro sinistra succedutisi negli anni 2000 e la progressiva privatizzazione dell’accesso, della remunerazione e dell’erogazione delle prestazioni sanitarie e sociali che i precedenti e l’attuale giunta regionale persegue è nella esperienza concreta delle/ei cittadine/i, ed in quella delle/gli operatrici/ori che misurano ogni giorno il pogressivo scadimento delle condizioni strutturali ed organizzative in cui operano.
Continuiamo con la demagogia e l’approssimazione. La demagogia, anche, di questo Pssr 2017-2019 consiste nello sperimentato metodo di sostituzione della analisi e della descrizione quali-quantitativa rigorosa e trasparente all’opinione pubblica dei bisogni dei cittadini e delle politiche e delle risorse necessarie per soddisfarli con la diffusione all’opinione pubblica di obbiettivi generali e generici sui bisogni già soddisfatti, con risposte date non verificate nella loro esaustività ed efficacia, e non di quelli da soddisfarsi sui quali operare una specifica impegnativa programmazione.
È il caso dei tre obbiettivi dichiarati strategici:

  • la lotta all’esclusione, alla fragilità e alla povertà.
  • il Distretto quale snodo strategico e punto nevralgico dell’integrazione sanitaria, sociale e socio-sanitaria.
  • far nascere e sviluppare strumenti nuovi di prossimità e di integrazione dei servizi sanitari e sociali [cioè le Case della Salute in quanto modello integrato e multidisciplinare di intervento rivolto ai cittadini per l’accesso alle cure primarie, l’accoglienza e l’orientamento ai servizi, la continuità dell’assistenza, la gestione delle patologie croniche, l’integrazione con i servizi sociali ed il completamento dei principali percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali (nelle fasi pre- e post- assistenza ospedaliera e in un futro sempre più attuale ad essa alternativa. ndr)].

A parte alcune, talora timide e pudico-pinocchiesche tal’altra roboanti, dichiarazioni di intenti quali ed esempio, “Il Piano persegue lo sviluppo delle Case della Salute e\o dei modelli organizzativi e culturali che le caratterizzano con l’obiettivo tendenziale (?) di dare piena copertura a tutto il territorio regionale” o”L’obiettivo strategico di questo Pssr sarà la coincidenza fra distretti socio sanitari ed Unioni, anche attraverso la piena attuazione della L.R.12/2013″ il piano è evasivo sia per quanto attiene la pianificazione sociale che quella istituzionale e quella sanitaria.
Circa la pianificazione sociale il Pssr 2017-2019 non esplicita una esaustiva descrizione dei fenomeni di esclusione, fragilità e povertà nelle loro dimensioni sociali ed economiche e nella loro distribuzione territoriale in funzione della definizione degli investimenti necessari ad interventi efficaci ed asaustivi. Si limita ad elencare la serie nazionale, regionale, comunale e della unione europea delle fonti di finanziamento ed una serie di politiche (per la prossimità e la domiciliarità, per la riduzione delle diseguaglianze e la promozione della salute, per promuovere l’autonomia delle persone, per l’integrazione delle politiche sociali con le politiche abitative, per la partecipazione e la responsabilizzazione dei cittadini e per la qualificazione e l’efficientamento dei servizi) e di norme (la L.R. 14/2015 “Disciplina a sostegno dell’inserimento lavorativo e dell’inclusione sociale delle persone in condizione di fragilità e vulnerabilità, attraverso l’integrazione tra i servizi pubblici del lavoro, sociali e sanitari”, il Sostegno all’inclusione attiva (SIA) introdotto dal DM Lavoro e politiche sociali 26 maggio 2016, il Reddito di solidarietà (RES) istituito con L.R. 24/2016 “Misure di contrasto alla povertà e sostegno al reddito”) non esplicitando se e quanto esse siano adeguate a rispondere ai bisogni cui sono finalizzate, ne dichiarando l’impegno ad adeguarle con congrue iniziative in sede di ripartizione delle poste del bilancio regionale o di contrattazione con il governo centrale nell’ambito della conferenza stato regioni e delle altre sedi stauite dalle norme sul federalismo.
Circa la pianificazione istituzionale, Distretti ed Unioni Comunali, il Pssr 2017 – 2’019 non esplicita una esaustiva descrizione dei livelli conseguiti ed ancor meno di quelli da conseguirsi nella riorganizzazione istituzionale in funzione della entità e della tipologia delle risorse umane e materiali necessarie e da reperire per rendere credibile ed efficace l’obbiettivo, di piano e politico, assunto della coincidenza fra distretti sociosanitari e unioni comunali, resa necessaria dalla ottimizzazione quali-quantitativa delle risorse che le nuove tecnologie di soddisfacimento dei bisogni sociosanitari, ed in generale di welfare e comuni, richiedono.
Ci si limita ad una esplicitazione, impropria in un piano e ripetitiva di norme regionali vigenti e cogenti, di regole e funzioni delle varie istituzioni (l’Assemblea legislativa, la Giunta, il Consiglio delle Autonomie Locali (CAL), la Cabina di regia per le politiche sanitarie e sociali, la Conferenza territoriale sanitaria e sociale (CTSS), l’Ufficio di supporto alla CTSS, il Comitato di distretto, l’Ufficio di piano, Il Distretto dell’AUSL e il suo Direttore, Il Direttore delle attività sociosanitarie dell’AUSL) e non si assumono obbiettivi ed impegni su strumenti di rendicontazione quali i Bilanci Economici e di Missione degli enti pubblici articolati per Distretto, Unione dei Comuni, Comuni e Quartieri che consentano il controllo e l’indirizzo democratico diretto (associazionismo e Volontariato) e delegato agli eletti nelle assemblee elettive comunali, di quartiere e di unione dei comuni.
Per il volontariato si prevede e facilita un ruolo di sussidiarietà orizzontale cioè di erogatore di servizi in alternativa alle istituzioni pubbliche nell’ambito delle normative che regolano le attività “del terzo settore” e di cogestore, con il pericolo che assuma ottiche da erogatore ed abbandoni quelle di “procuratore” del segmento, specifico per bisogno, del corpo sociale, e di controllore democratico del buon funzionamento delle istituzioni pubbliche.
Sul piano sanitario per quanto attiene l’andamento dei finanziamenti e della spesa del servizio sanitario regionale non si riportano dati regionali specifici ma ci si rifugia nell’edulcorazione e nella mistificazione del definanziamento del servizio sanitario nazionale con l’osservazione che “A partire dal 2016 le risorse che annualmente la Legge di stabilità, ora di bilancio dello Stato destina alla copertura del cosiddetto “fabbisogno sanitario standard” hanno ripresto un ritmo di crescita (?), a valenza pluriennale: 111 miliardi di euro nel 2016, 112,578 miliardi per il 2017, con una crescita prevista di 1 miliardo l’anno per ciascuno degli anni 2018 e 2019″. pur a fronte della denuncia, ad esempio, della XII commissione Igiene e Sanità del senato che nello scorso aprile che, tra l’altro, osserva: “La stessa comparazione tra tasso di crescita medio annuo della spesa sanitaria (1,3 per cento) e tasso di crescita del PIL nominale (2,9 per cento), con conseguente discesa dal 2019 e confermato nel 2020 del rapporto spesa sanitaria /PIL al 6,4 per cento (ulteriore incremento del gap con i paesi avanzati EU1[5], comporta una restrizione ancora più marcata in termini di spesa reale, posto che l’indice dei prezzi del settore sanitario è sempre superiore all’indice generale dei prezzi al consumo”.
E questo a fronte del fatto che si riporta dettagliatamente:

“Il 2017 è l’anno di avvio:

  • dei nuovi Livelli Essenziali di Assistenza (praticamente immutati dal DPCM del 2001 che ne aveva sancito l’inizio), in parte già anticipati in alcune regioni italiane, tra cui la nostra, ed è anche l’anno in cui il sistema delle “regole” con le quali le prestazioni vengono valorizzate sotto il profilo economico (le tariffe) vede una sua complessiva ridefinizione;
  • del nuovo Piano Nazionale di Prevenzione Vaccinale (PNPV) e delle conseguenti nuove e ampliate coperture vaccinali per corti di popolazione specifica;
  • di Fondi specifici a copertura (anche se parziale) della innovazione nell’area dei farmaci oncologici e di consolidamento per quanto riguarda il fondo per farmaci HCV;
  • dei rinnovi contrattuali per il personale dipendente dal Ssn le cui retribuzioni sono ancora ancorate ai contratti stipulati ante 2010″.

    Non una parola di impegno sul reperimento di fondi necessari per il triennio mentre si rivendica: “A livello regionale il fabbisogno sanitario standard, che si traduce nel volume complessivo delle risorse che alimenta il Fondo Sanitario Regionale, ha avuto un incremento coerente con il trend nazionale (, cioè una riduzione di fatto?). A partire dal 2015 il SSR registra un autonomo equilibrio economico-finanziario; il Bilancio regionale non ha stanziato risorse aggiuntive per il fabbisogno finanziario annuale del SSR e gli stanziamenti annuali di risorse regionali danno copertura esclusivamente a partite pregresse e ad anticipazioni, per conto dello stato, degli indennizzi ai soggetti emotrasfusi”.
    Il personale del servizio sanitario nazionale sa quale dequalificazione e quale incremento del tempo contrattuale di lavoro e riduzione relativa delle remunerazioni ciò ha già comportato e, teme e prevede, comporterà.
    A seguire verbose e fumose allusioni alla intenzione di procedere ad accorpamenti di aziende come quelle già avviate in varie province a correggere clamorosi errori di programmazione del passato, (quali i due Ospedali di Modena), in una ottica non di correzione delle disfunzioni operative sul piano assistenziale che tali scelte comportarono ma di esclusivo taglio dei costi.
    Sul versante dello sviluppo quali quantititativo dell’offerta di servizio, per tutto l’ambito non riconducibile al socio-sanitario ma “sanitario puro”, il piano si dilunga in un fluorilegio di autocompiacimenti per aver preceduto le normative specifiche nazionali in vari settori senza documentazione dei risultati conseguiti e soprattutto senza determinazioni, almeno di massima, del “da farsi” e del “da investirsi”.
    Emblematico è il caso delle Case della Salute, quali presidi distrettuali per la integrazione logistica ed operativa sia socio-sanitaria che ospedaliero-distrettuale/domiciliare (territoriale), che, per la ottimizzazione quali-quantitativa necessaria per erogare servizi efficaci in maniera efficiente in funzione delle dimensioni epidemiologiche delle patologie da contrastare con gli specifici percorsi diagnostico terapeutici già teorizzata dagli stessi documenti regionali, dovrebbero essere graduate per bacini di utenza crescenti a partire evidentemente dalla dimensione di prossimità costituita da Comuni e Quartieri, e quindi in numero non inferiore ma certamente superiore, e non poco, a quello dei Comuni, 334, mentre ne sono attive 84 con 13 “ospedali di comunità”, e programmate 35.
    Numerosità di grande rilievo ma necessaria e possibile se la integrazione con i servizi sociali di prossimità ed i Comuni è l’obbiettivo e la riconversione di tutti i servizi sanitari e sociali a tal fine è perseguita.
    In tal modo l’adeguamento all’impetuoso sviluppo tecnologico ed alle esigenze della sostenibilità sociale ed ambientale e la centralità della salute in tutte le politiche amministrative a cominciare da quelle urbanistiche, e le conseguenti necessarie riorganizzazioni delle strutture e dei processi produttivi del servizio sanitario pubblico (Rete Ospedaliera, Case della Salute, Continuità Ospedale Territorio, E-health, Equipes multiprofessionali e multidisciplinari, interazione con servizi non sanitari) in Emilia Romagna non è credibile alcun impegno.
    Così non va. È un piano che maschera con affermazioni demagogiche e informazioni inadeguate l’intento, o l’incapacità, di non invertire la rotta del definanziamento del servizio sanitario regionale e della incrementale e progressiva privatizzazione della erogazione e del finanziamento dell’assistenza socio sanitaria.
    I cittadini, poveri e non, ed i professionisti della salute non possono e non vogliono ne ulteriormente pagare ne ulteriormente attendere.
    Note
    [1] “All’ente pubblico spetta un ruolo fondamentale e delicatissimo in questa costruzione: un forte ruolo di governo e di regolazione dei servizi e dei soggetti della comunità, in modo da garantire l’equità nell’accesso ai servizi, con un’attenzione elevata al controllo dei livelli di qualità. Questo significa assegnare ai soggetti pubblici compiti chiari d’indirizzo e governo in modo che i soggetti e le organizzazioni non pubbliche che a vario titolo partecipano alla gestione ed erogazione dei servizi si sentano sostenuti e tutelati e possano orientare la loro azione all’interno di regole chiare e trasparenti, soprattutto dal punto di vista della qualità delle prestazioni fornite. D’altra parte per poter garantire l’equità nell’accesso ai servizi l’ente pubblico non si limita a svolgere un ruolo di regolazione attraverso l’attività amministrativa e regolamentare ma garantisce la gestione pubblica nella fase della presa in carico dell’utenza e nella definizione dei percorsi di attuazione degli interventi”.
    [2] “Per continuare a garantire l’universalità dell’accesso nei servizi sanitari si è modulato il livello di contribuzione degli utenti in relazione alle disponibilità economiche; nel caso dei servizi sociali e sociosanitari, si è continuato ad operare secondo il principio dell’universalismo selettivo, per il quale si dà priorità di accesso a chi, per condizioni fisiche, economiche o di altro tipo, ne abbia maggiormente bisogno”. (pag. n. 3[5]
    [3] “• un modello di governance che garantisca la sostenibilità finanziaria e attribuisca a un rinnovato e autorevole livello centrale di governo compiti di regia e indirizzo, affidando, invece, alle istituzioni locali e ai corpi intermedi, secondo i principi di sussidiarietà, responsabilità e differenziazione, l’erogazione dei servizi in funzione di standard qualitativi e livelli essenziali delle prestazioni;”
    [4] ” • gli obiettivi strategici dei prossimi anni per giungere – attraverso un costante esercizio di benchmarking con le migliori esperienze internazionali e in coerenza con le linee guida comunitarie – a un sistema di protezione sociale universale, selettivo e personalizzato che misuri su giovani, donne e disabili, in termini di vera parità di opportunità, l’efficacia delle politiche;”. Entrambi i principi, il Welfare di comunità/comunitario e l’universalismo selettivo vengono definiti come espressione del fatto che:
    [5] “Si affermano diffusamente i criteri della economia sociale di mercato, quale sola prospettiva che consente di far coesistere, all’interno del medesimo sistema, efficienza e giustizia sociale”.

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