Il mondo al tempo dei quanti: perché il futuro non è più quello di una volta

14 Giugno 2017 /

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di PierLuigi Albini
Quando nel marzo dell’anno scorso Mario presentò qui a Pentatonic un primo schema di quello che sarebbe poi diventato un libro scritto con Debora Rizzuto, il titolo era Connessi ma lontani. Quanti e relatività: istruzioni per la politica. Ora il libro, uscito verso la fine del 2016, con la prefazione dei due fisici Gianni Mattioli e Massimo Scalia e con la postfazione del politologo Giorgio Galli, ha un titolo diverso, che nel testo non fa sconti alla politica, ma che appare di più ampio respiro e coinvolgente non la sola politica: “Il mondo al tempo dei quanti”. Perché il futuro non è più quello di una volta.
Un libro insolito – è stato notato – e anche ambizioso, perché l’argomento è di una tale vastità e complessità, e ha così tante e tali implicazioni, anche pratiche, che potremmo definirlo come un lievito destinato a crescere, da nutrire con apporti multipli e con riflessioni e approfondimenti ulteriori. Non a caso, nel corso di altre presentazioni del libro, si è detto che questo testo potrebbe essere la base di partenza di un possibile laboratorio partecipato. Personalmente, mi auguro che questo auspicio diventi realtà.

Come dire: attenzione, a ciò che i due autori ci dicono a proposito del ritardo culturale diffuso con cui non abbiamo ancora metabolizzato le rivoluzioni scientifiche del ‘900 – e, in primo luogo, quella della fisica quantistica. Forse proprio per questo, non possediamo gli strumenti conoscitivi per renderci fino in fondo conto di una rivoluzione, qui ed ora, a cui reagisce una politica con la testa voltata all’indietro: pigrizia mentale, interessi, pregiudizi consolidati e scarsa attitudine a conoscere. Poi, c’è ancora chi si ostina (e in alcuni paesi è un fenomeno di massa, come negli USA) a considerare l’evoluzionismo una balla.
Lo dico con le parole di Massimo Grattarola, un pioniere, negli anni ’60 del secolo scorso della bioelettronica e della neuroingegneria (già negli anni ’60, teneva dei corsi su questi argomenti!): “La conoscenza non è un’attività tra le altre del soggetto umano, ma la forma stessa del suo rapporto con la realtà”. Che è peraltro un’eco del medievale “Considerate la vostra semenza / fatti non foste a vivere come bruti / ma per seguire virtute e canoscenza”. La non conoscenza (lo dico in senso diverso dall’ignoranza) è il primo e deciso passo per non controllare la realtà; che è anche il primo decisivo ingresso all’essere spogliati dalla facoltà di poter decidere in modo sensato e autonomo.
D’altra parte, ciò che avvenuto con le rivoluzioni scientifiche novecentesche e con quella permanente in corso, sfugge non solo ai decisori politici ma a tanta parte della cultura nazionale, abituata a discuterne – quando lo fa – più con gli strumenti della retorica che con cognizione di causa: cioè, conoscendo davvero ciò di cui parla; in metafora: evitando di scendere nella “sala macchine” e di sporcarsi le mani con l’olio e il grasso. Eppure spesso pretende di sapere come funziona un diesel marino. Ma siccome “la nottola di Minerva la sa sempre più lunga”, alla fine si ritrova con in mano solo un mare di chiacchiere, mentre il treno della rivoluzione tecnologica procede senza che ci si sia data la briga di sapere come e perché sta correndo e, quel che è peggio, come si fa ad influire su velocità e direzione.
Insomma, a che punto siamo? Dare una risposta significa avere in mente la portata teorica e pratica della rivoluzione operata dalla fisica quantistica; ma non solo, anche in altri domini scientifici che in parte ne dipendono e in parte procedono in veloce autonomia. Penso alla genetica e alle sue manipolazioni, fino alla correzione genica; alla nuova scienza della biologia quantistica; penso al nuovo “macchinismo” dei computer e alle connesse Intelligenza Artificiale e al Big data fornito dalla Rete; penso all’integrazione tra neuroscienze e ingegneria e al suo frutto della robotica e delle cosiddette brain machines, ovvero dell’integrazione uomo/macchina, dove la macchina è mossa dal pensiero.
Tutti argomenti, ma ce ne sono anche altri, che i due autori affrontano, confrontandoli poi con quelli che chiamano i “Principi alla prova della realtà”: per esempio, la nuova manifattura e l’organizzazione del lavoro e il suo spionaggio/controllo oppure la finanza internazionale o anche la medicina di avanguardia o l’invasione del big data nella vita quotidiana sugli aspetti più privati. E c’è anche uno scorcio sull’arte, la cui compattezza si è ormai sbreccata, come l’immagine del mondo restituitaci oggi dalla scienza.
Siamo ancora molto irrigiditi in una visione delle scienze organizzate per competenze e classificazioni accademiche, ma oggi i risultati di avanguardia provengono dal superamento di quegli steccati disciplinari e ci stupiremmo di entrare in un laboratorio di robotica i cui gruppi di lavoro sono composti da fisici, da matematici, da ingegneri, da medici, da biologi, da psicologi, ma anche da filosofi e persino da teologi.
Siamo entrati, anche se non ce ne accorgiamo, nell’era della Intelligenza Artificiale e dell’accesso dei programmi a funzioni che si pensava riservati alla sola sfera umana: parlo del lavoro intellettuale e professionale. Programmi che scrivono articoli per i quotidiani, che intervengono nella chirurgia più delicata, che sostituiscono le vecchie ricerche di archivio, che danno pareri legali. La robotica ha fatto da anni il suo ingresso nelle attività produttive e il rapporto degli operatori con la produzione o con i servizi è ormai mediato da sistemi informatici; ma finché si parla di questi ambiti, l’opinione pubblica appare distante.
Che dire allora dei robot umanoidi in fase preindustriale dedicati all’assistenza, in particolare degli anziani affetti da malattie invalidanti, alcuni dei quali sono già sul mercato? Quale relazione esiste tra il modo in cui pensiamo e un computer digitale e, in generale, tra la digitalizzazione del mondo e la nostra architettura cerebrale? E, soprattutto, in che relazione stanno – ed è una delle domande centrali in questo libro – le nostre connessioni neuronali, che utilizzano meccanismi di comunicazione chimico/elettrici (relativamente lenti) e i meccanismi che agiscono alla velocità prossima alla luce con cui interagiamo continuamente?
C’è anche la questione del rapporto tra intelligenza umana e intelligenza artificiale, che occupa ormai scaffali di saggi e migliaia di files in giro per la Rete. Su questo tema la fantasia letteraria e poi specificamente fantascientifica hanno precorso spesso i tempi. Cominciando da Mary Shelley e dal suo Frankenstein, per transitare nel robot R.U.R. di Čapek e nella cultura cyberpunk, per giungere alla concreta definizione del termine di cyborg del 1960, che “incorpora componenti esogeni estendendo la funzione di controllo autoregolante dell’organismo per adattarsi ai nuovi ambienti” e, aggiungo, per potenziare le proprie facoltà e prestazioni.
Pensiamoci bene, un essere umano dei tempi passati e ancora di più quelli dell’età della prescrittura avevano mediamente una memoria prodigiosa rispetto a un qualsiasi ragazzo o ragazza nativi digitali; ma se mettiamo insieme le prestazioni anche tramite gli strumenti ausiliari oggi disponibili, non c’è partita tra la contemporaneità e il passato. Poi, certo, c’è il problema del rapporto tra informazione e conoscenza, dove la prima straripa e la seconda rischia di restringersi, di banalizzarsi. Ma questo è anche, a ben vedere, uno dei problemi che pongono gli autori di questo libro.
Senza che ce ne rendiamo conto sui nostri smartphone agiscono già i cosiddetti sistemi esperti, ma se ora e in futuro si tratterà di due sistemi di intelligenza diversi – quello umano e quello artificiale – che possono comunicare e interagire, ma che rimarranno complementari, non sostitutivi, ciò non di meno sappiamo bene che la sempre più invasiva connessione uomo/digitale porta ad una riconfigurazione delle strutture mentali. Intanto, il paradigma, a lungo prevalso, che immaginava il pensiero come il prodotto di una specifica area cerebrale e persino di singoli neuroni (chi non ricorda il “neurone della nonna”?) ha ceduto il posto all’interpretazione che ritiene il pensiero come un fenomeno emergente dell’architettura neuronale; come una sinfonia che sale da un’orchestra dove anche il singolo strumento ovviamente suona, ma dove sarebbe sciocco attribuirgli l’intera melodia.
Però, ci manca ancora la comprensione del codice che usa il cervello per comunicare tra neuroni. Comunque, più ne sappiamo (e ne sappiamo molto), più è affascinante ciò che non sappiamo. Ora, dov’è il problema? Sta nel fatto che le nostre interconnessioni con il mondo sono cambiate in profondità e che l’immagine scientifica che ci restituiscono è anch’esso quasi radicalmente diverso dal passato. Le nuove tecnologie non sono più solo, come nella visione classica, un prolungamento del corpo ma una integrazione con “altro”.
Teoricamente non c’è problema, le neuroscienze ci dicono che l’architettura neuronale si adatta ai nuovi strumenti personali e che la struttura proprio ricettiva (quella che ci fa riconoscere il nostro corpo come appartenente a noi stessi) considera qualsiasi protesi usata a lungo come appartenente al proprio Sé. Anzi, questa proprio ricezione incorpora anche la rete sociale in cui siamo immersi. Tutto ciò è vero anche per una parte degli altri primati che imparano a muovere un cursore con il pensiero. Del resto, l’evoluzione ci ha consegnato strutture e funzionalità che, da un punto di vista ingegneristico, possono essere considerate un “accrocco”, organi nati per una funzione che vengono adattati ad un’altra, sovrapposizioni funzionali e residui evolutivi: insomma, siamo un bricolage biologico.
Meravigliosamente funzionante, ma bricolage e, dunque, aperto. Il punto è, come si adatterà questo patchwork, questa natura biologica ad un mondo artificializzato fin nel pensiero? In fondo, l’adattamento, magari senza che ce ne accorgiamo, è già iniziato (oggi, per esempio, non leggo un saggio senza l’ausilio della Rete, per ragioni di informazioni supplementari, per saperne di più di una citazione, per approfondire un passaggio, per ricorrere ad una memoria al di fuori di me e prontamente disponibile). E se il mio pc o il mio smartphone sono fuori uso per qualche tempo, non sfuggo ad un senso di smarrimento. Già, ma il problema non riguarda forse il nostro hardware, che è adattabile, ma il nostro software ovvero la cultura, che invece è in forte ritardo e disorientata.
Se i tempi biologici sono più lenti di quelli digitali, lo sono anche quelli storico/culturali, della cui vischiosità si dovrebbe discutere a lungo. Come per l’appunto prova a fare questo libro.
L’algoritmo è ciò che domina il nuovo mondo. Persino la guerra ha subito un drastico cambiamento: non si può più fare solo per terra, mare e cielo, si sono aggiunte due nuove dimensioni, lo spazio e il cyberspazio; e mentre siamo ipnotizzati da terribili guerre locali, solo ogni tanto esce allo scoperto il fatto che quella mondiale nel cyberspazio è in pieno corso. È cambiata cioè la “grammatica della guerra”; le forze armate degli USA stimano che entro il quinquennio il 25% dei combattenti saranno costituiti da robot e da “armi autonome in grado di decidere se, quando e come rilasciare il proprio carico letale”.
Insomma, è in corso una guerra sotterranea e in parte interstatale su chi controlla gli algoritmi che presiedono alle comunicazioni e al Big data. Ci ricorda Michele Mezza, un altro degli autori di Ticonzero che ha conversato qui lo scorso anno, che in un sistema automatizzato nutrito da enormi capacità di calcolo, il potere si concentra “nelle mani di chi controlla la programmazione degli automatismi” e che attualmente questi controllori non sono gli Stati, ma chi possiede gli algoritmi per farli funzionare.
Basti pensare che il comparto dell’innovazione digitale dispone di più di 2.000 miliardi di $ liquidi e per 4.000 miliardi di $ di capitale. Il sistema finanziario internazionale, per esempio, è affidato ai cosiddetti bots, i quali, alla velocità di tre decimillesimi di secondo, in modo automatico, trattano ormai il 75% dei traffici finanziari. I quali bots, a partire dalle più recenti consultazioni, come per la Brexit e negli USA, stanno ormai dilagando anche nel profilare l’elettorato e nell’indirizzarlo. Persino il marketing è ormai cambiato: nell’immediato futuro dimenticatevi la pubblicità generica e aspettatevene una personalizzata: il che già avviene, peraltro, come si dovrebbe essere accorto chiunque frequenti Internet e i Social network. Del resto, siamo anche sulla soglia della medicina personalizzata.
Quello che la politica – intesa non solo come governo della polis, ma anche come progettazione del futuro (due funzioni che sembrano anch’esse essersi eclissate) – e l’etica, anche, come valori da preservare e da innovare radicalmente, non hanno capito, è che stiamo già transitando verso un’altra realtà. Per allargare la prospettiva, e per dirla con le parole di un’altra autrice di Ticonzero, Flavia Zucco, che ha anche lei già tenuto qui delle conversazioni, “sappiamo […] che noi siamo gli embrioni di nuovo Homo sapiens di cui, se vogliamo, possiamo tentare, in qualche modo, di influenzare il destino”. Vorrei aggiungere: a meno che non distruggiamo con le nostre mani, non solo noi, ma la Terra su cui viviamo, se non si diventerà coscienti di questo passaggio antropologico.
Però, non si tratta solo di una questione culturale: lo storico triangolo capitale-lavoro-natura, anche in forza delle nuove tecnologie, sta cambiando i propri rapporti e l’uno espelle o consuma senza ritorno gli altri due. Tutto ciò mentre l’alienazione, una categoria un tempo soprattutto riservata al mondo del lavoro, si estende all’intera società.
Questo è però anche un libro “costruttivo”: i due autori non si sottraggono all’impresa di suggerire, nella parte finale del testo, alcune indicazioni programmatiche. Ma esse hanno tutte un presupposto ovvero che bisogna prima “cambiare la cassetta degli attrezzi” con cui interpretiamo il mondo. Per esempio, c’è anche un filone importante che riguarda la questione del rapporto tra oggettività e soggettività, tra “il mondo là fuori” e la nostra rappresentazione; e gli autori ci avvertono che proprio la fisica quantistica e le stesse neuroscienze ci dicono che la realtà va bene al di là di quanto percepiamo e che è proprio questo “oltre” che già maneggiamo continuamente attraverso gadget e strumentazioni varie.
Ci dicono anche quanto sia necessario transitare da un pensiero meccanicistico e riduttivistico ad un pensiero che sappia cogliere e ricomporre i diversi livelli, le stratificazioni e le interconnessioni di cui è formata la realtà, nel suo complesso, da quella micro a quella macro. Il discorso qui sarebbe lungo, anche se è una delle cose più intriganti del libro. L’unica cosa che mi sento di aggiungere su questo tema è di fare molta attenzione (ciò che spesso i fisici non fanno) al dato evoluzionistico.
In buona sostanza (ma non mi riferisco agli autori), spesso dimenticano che esiste anche “una storia naturale del cervello”, che non inizia con la specie umana. Perché la nostra percezione del mondo si è formata con le prime forme di vita, con la sensibilità alla luce; e si è sviluppata per miliardi di anni attraverso prove ed errori, adattamenti e eliminazioni. E poiché noi non percepiamo il mondo solo attraverso la vista, ma anche con l’olfatto (chimica) e con l’udito e il tatto (meccanica), questa pluralità di approcci nell’uso di leggi chimico/fisiche ci dà una notevole probabilità di approssimarci a sufficienza alla realtà.
Poi, certo, il mondo micro e quello macro sfuggono ai nostri sensi, ma abbiamo inventato degli strumenti/protesi per osservarli. Tuttavia, sappiamo che a livello delle particelle elementari, l’osservatore “disturba” il loro comportamento ed è da qui che nasce la meccanica quantistica, che altro non è che conoscere quel livello di mondo in modo probabilistico, come probabilistica è la nostra cosciente ricostruzione del mondo. E così come funziona il nostro uso della meccanica quantistica, così funziona quello del mondo quotidiano. Insomma, la vecchia medievale diatriba tra nominalismo e realismo, si ripresenta oggi sotto le vesti di nuovo realismo (new realismo) e illusionismo.
C’è dunque una probabilità alta che esista una corrispondenza non fittizia – operativa, per l’appunto – tra il fuori e il dentro di noi. E questo perché potremmo considerare il cervello come una macchina biologica simulatrice, affinata da milioni di anni di sperimentazioni. Il punto è che questo “fuori” immaginato dalla specie umana è del tutto provvisorio anche per altre ragioni (per esempio, solo pochi scellerati pensano oggi ad una Terra piatta e al centro dell’universo) e ogni volta che cambia la nostra visione del mondo, come oggi l’hanno cambiata la fisica quantistica e le scienze contemporanee (che poi non sono nemmeno un punto di arrivo statico), sono dolori per il vecchio modo di pensare e di agire.
Che è proprio ciò che la politica non ha ancora capito rispetto all’oggi. La novità epocale consiste nel fatto che nel nostro orizzonte quotidiano, in via diretta o indiretta, sono entrate funzionalità e stimoli provenienti da un altrove rispetto ai nostri sensi, evolutisi per adattamento alla percezione solo di uno spicchio di come è fatto davvero il mondo. D’altra parte, quella che è stata definita una “ingegneria approssimativa della mente” testimonia di questo continuo adattamento e perfezionamento nel corso delle ere.
Poi, certo, la stessa biologia quantistica che ho citato prima, ci dice che i fenomeni cerebrali e forse non solo cerebrali non possono prescindere dalla meccanica quantistica e alcuni sostengono che essa è alla base del pensiero e della coscienza. Si tratta di una prospettiva nuova, aperta: il calcolo probabilistico viene posto alla base della esistenza della stessa vita, così come la nostra mente, nel ricostruire il mondo, si affida alle probabilità fornite dall’eredità genetica, dall’esperienza e dalla cultura. Le ricerche e i dati sperimentali ci dovranno dare una risposta provvisoriamente definitiva, come lo sono tutti gli avanzamenti scientifici, che procedono per l’appunto attraverso questo ossimoro: provvisorio e definitivo. Per questo la scienza è un sistema aperto ma rigoroso nel suo procedere. Tanto aperto che alcune teorie cosmologiche più recenti considerano l’Universo come un grande ologramma o generato da un ologramma.
Tutti questi “scarti” epocali indicati nel libro e qui sommariamente richiamati, ci riportano al problema del controllo di ciò che sta accadendo dentro e fuori di noi: ci riportano al principio di responsabilità e a quello del controllo sociale, che non saranno possibili senza una diffusa alfabetizzazione scientifica; senza il superamento della stantia contrapposizione tra pensiero umanistico tradizionale e pensiero scientifico. Una contrapposizione che appartiene purtroppo ai maggiori indirizzi di tutta la filosofia continentale del XX secolo. Volendo andare al fondo degli impianti filosofici contrapposti, si tratta del vecchio dualismo occidentale, della contrapposizione tra soggetto e oggetto, tra le nozioni cartesiane di res extensa e res cogitans o, teologicamente parlando, tra anima e corpo.
Questo mi sembra il vero focus del libro, perché (e termino con una citazione dal testo) “finché la conoscenza scientifica sarà riservata a specialisti e l’opinione pubblica ne sarà partecipe solo tramite una volgarizzazione grossolana, l’incontro con l’irrazionale e con la complessità ricorrente dei nostri tempi continuerà a toccare solo ai più colti nella forma nobile dell’arte, o solo i più impegnati nella forma esplosiva della passione o, ancora, i succubi in quella della passiva mistificazione”. Il rischio reale è che la stragrande maggioranza dell’umanità precipiti in una succube passività. Personalmente, però, continuo a scommettere sull’umano, sulla crisalide del vecchio (il bruco) e sulla farfalla, su una nuova humanitas.

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