Segnali elettorali: dall'ottimismo forzato alla morte del bipolarismo

10 Giugno 2016 /

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Elezioni amministrative
Elezioni amministrative
di Ida Dominijanni
Stanca, impoverita, disincantata, la società italiana si è svegliata domenica mattina un po’ meno pigra del solito e ha dato al sistema politico due segnali inaggirabili. Il primo: la narrativa renziana dell’ottimismo forzato, del riformismo forzoso e del leaderismo rafforzato non convince e non vince. Il secondo: il bipolarismo italiano, già morto alle elezioni politiche del 2013, adesso è anche sepolto.
Il Movimento 5 stelle, l’alieno venuto tre anni fa a fare da terzo incomodo fra un centrodestra e un centrosinistra già pericolanti dopo il tramonto di Berlusconi, si è installato stabilmente nell’immaginario politico nazionale e a fermarlo non sono bastati gli scongiuri del novello partito della nazione, né nella versione piatto unico né in quella con contorno di Verdini.
L’infinita transizione italiana non si ferma neanche stavolta, alla vigilia di un referendum costituzionale che vorrebbe, com’è già stato invano tentato in passato, irreggimentarla in un nuovo apparato di regole: siamo e restiamo – ed è un bene – in un inquieto movimento. Matteo Renzi ha provato con ogni mezzo a derubricare in anticipo il responso delle amministrative, e ci ha riprovato anche lunedì, a responso emesso. Il quale responso, sostiene il premier, non ha alcun significato generale, è locale e perfino casuale, perché ormai “si vota facendo zapping”. Ma si sbaglia.

Non è locale ma generale il salasso di voti del Pd, non è locale ma generale il consolidamento e la crescita dei cinquestelle, non è locale ma generale la divisione del fu centrodestra e la riduzione ai minimi termini della fu Forza Italia. L’eccezione Milano, dove due candidati speculari e centristi, sostenuti da due coalizioni compatte, ripristinano lo schema bipolare (tuttavia anche lì “disturbato” da un M5s che passa dal 3,5 a un 10,3 per cento decisivo per il ballottaggio), non fa che confermare la regola, che va in tutt’altra e poco prevedibile direzione.
Detta in sostanza, e cercando di dare un minimo di sfondo storico alla cronaca, la favola è questa. Tramontato, ormai cinque anni orsono, l’astro ventennale di Berlusconi, perno del bipolarismo della cosiddetta seconda repubblica, l’astro nascente di Matteo Renzi non è riuscito, in due anni, a sostituirne il ruolo facendo del Pd il perno ordinatore dell’agognata terza repubblica, quella che dovrebbe nascere dalla riforma costituzionale.
Ci s’è messo di mezzo il terzo incomodo del Movimento 5 stelle, ma non si tratta solo di questo, bensì anche, e in primo luogo, di un fallimento del progetto originario del Pd, e poi del Pd renziano. La supposta “necessità storica” del partito a vocazione maggioritaria, la sua supposta centralità come architrave del sistema, il suo supposto destino di espressione e sintesi della “Nazione”, infine la sua supposta funzione di bastione della tenuta del sistema contro l’attacco dei “barbari” pentastellati, tutte queste formule di legittimazione del partito di stato e di governo s’infrangono contro la sua ormai evidente emorragia di voti, d’insediamento territoriale (a Roma il Pd si rivela, absit iniuria verbis, un partito pariolino), d’identità e appartenenza – della quale peraltro non beneficia la sinistra radicale (malamente) organizzata.
Matteo Renzi ha provato in questi due anni a mettere se stesso al posto di tutto questo. La sua persona, la sua energia, la sua parlantina, la sua furia rottamatrice, la sua deriva accentratrice, la sua passione per il potere, fino agli eccessi debordanti della campagna anticipata sul referendum costituzionale.
Non basta, con ogni evidenza: da nessuna parte del pianeta, nemmeno negli Stati Uniti assunti sempre a modello a proposito e a sproposito, la personalizzazione della politica pretende di fare a meno del sostegno di una struttura, di un cervello collettivo, di un lavoro di radicamento territoriale.
Alla prima occasione infatti gli elettori, infastiditi dal troppo che storpia nell’ego renziano, hanno detto no grazie, consegnando alla preistoria l’estemporanea infatuazione che gli aveva regalato quel famigerato 40 per cento alle elezioni europee del 2014, fin qui usato e abusato come incontrovertibile fonte di legittimazione del suo governo. Così come hanno detto no grazie alla stucchevole retorica, questa sì bipolare, di un’Italia spaccata fra innovatori e conservatori, allodole e gufi, rampanti e rottamati, comunicatori e parrucconi e via dicendo.
Naturalmente la partita è ancora aperta, anzi com’è noto quella dei ballottaggi è un’altra partita. Nelle prossime due settimane il tripolarismo non mancherà di stupirci con vari effetti speciali, scambi di voti, accordi sottobanco, ulteriori rotture interne alle sigle in campo e quant’altro. Sorprese, anche eclatanti, non sono affatto da escludere e nessun vincitore del primo turno, Raggi compresa, può dormire tranquillo. Difficilmente però i segnali di cui sopra verranno smentiti, nella valenza generale che Renzi occulta.
Nel frattempo, sarebbe saggio tenere presenti tre piccole norme di comportamento. Primo, smettere di liquidare il Movimento 5 stelle con le formule sbrigative – dilettanti, antisistema, barbari all’assalto – con cui è stato liquidato sinora, senza che peraltro nessuno si prendesse la briga d’inventarsi una qualche strategia di conquista o d’interlocuzione nei suoi confronti.
Il Movimento 5 stelle somiglia e non somiglia alle formazioni che in tutti i paesi occidentali stanno rompendo lo schema di gioco bipolare, politico e ideologico, e non è la causa ma il portato della riduzione che il discorso politico ha subìto in Italia nel ventennio passato e della perdita di significato delle identità politiche tradizionali.
Secondo, smetterla di rappresentare le città italiane come fortini in preda al panico da invasione dei migranti: la destra xenofoba di Salvini non sfonda da nessuna parte e resta confinata al nord, malgrado le sia stato concesso di occupare stabilmente telegiornali e talk show in omaggio alle regole, vere o presunte, dell’audience. Infine, a proposito di audience: il voto premia due giovani donne, Virginia Raggi e Chiara Appendino, che hanno una retorica minimalista, tutt’altro che urlata, e un’immagine discreta, tutt’altro che esibita. Maghe e maghi del look e della comunicazione politica ci facciano un pensierino.
Questo articolo è stato pubblicato da Internazionale il 7 giugno 2016

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