Jihad e cyberwar: nulla è come sembra

4 Marzo 2016 /

Condividi su

Jihad e cyberwar: nulla è come sembra
Jihad e cyberwar: nulla è come sembra
di Saveria Capecchi
Internet nasce negli USA durante gli anni della Guerra fredda come sistema di comunicazione decentralizzato avente il fine di resistere a un eventuale attacco atomico russo.
Oggi la possibilità di comunicare, di produrre, diffondere e condividere contenuti tra utenti della rete collegati in quasi ogni parte del mondo sta innescando l’effetto paradossale di un’impossibilità di difendersi da parte dei paesi occidentali da quella che Monica Maggioni (giornalista e Presidente Rai) definisce un’aggressione mediatica violenta perpetrata dal Daesh o Isis (Islamic State of Iraq and al-Sham), il gruppo terroristico guidato da Abu Bakr Al Baghdadi che il 29 giugno 2014 ha proclamato la nascita dello Stato Islamico.
Partiamo dai fatti più recenti. A seguito dell’iniziativa degli hacker di Anonymous, che dopo gli attentati a Parigi il 3 novembre 2015 avevano lanciato l’operazione OpParis cancellando account Twitter riconducibili all’Isis, anche i “colossi della rete” Google, Facebook e Twitter a inizio febbraio 2016 hanno preso posizione dichiarando di stare lavorando a una contronarrazione mondiale: la creazione di un algoritmo capace di identificare quando l’utente cerca siti gestiti dall’Isis in modo da bloccarne l’accesso e al contempo di proporre link alternativi/in contrasto con l’ideologia del terrorismo islamico.

La risposta dell’Isis non si è fatta attendere: in un video caricato online il 25/2/2016 si mostrano i volti dei fondatori di Facebook e di Twitter bucati da fori di pallottole e un testo scritto contenente lo sberleffo: “E’ tutto qui quello che siete in grado di fare? Per ogni account che voi chiuderete noi ne apriremo dieci”, per poi vantarsi di controllare 10.000 account, 150 gruppi su Facebook e 5000 profili su Twitter. E l’hanno già dimostrato. Ad esempio, quando YouTube (di proprietà di Google) e Twitter hanno cominciato a chiudere sistematicamente tutti gli account dell’Isis, gli jihadisti hanno caricato i video su altri canali come Vid.me, Vimeo.com, JustPaste.it, archive.org, Diaspora, ecc. – quest’ultimo è un social network open-source dove tecnicamente nessuno può rimuovere i contenuti. Ma la cyberwar è solo agli inizi.
Svariati giornalisti/e, studiosi/e dei media, politologi/ghe in questi ultimi anni hanno evidenziato l’abilità e la professionalità degli jihadisti dell’Isis nell’utilizzo dei media e specialmente dei social media e al contempo hanno denunciato l’iniziale sottovalutazione di questa expertise da parte dei servizi di intelligence e dei media tradizionali occidentali. La sorpresa per le capacità dimostrate nell’uso delle nuove tecnologie dipende da stereotipi consolidati che dipingono le popolazioni mediorientali culturalmente arretrate, arcaiche se non primitive nei loro comportamenti. Ma ai gesti efferrati e “primitivi” degli sgozzamenti e delle teste mozzate da coltelli affilati fa da contraltare l’artificiosità di una regia sapiente, da parte di persone che probabilmente hanno studiato in Occidente e ora usano il linguaggio dei media occidentali per terrorizzare il mondo intero.
Sfugge all’opinione pubblica il fatto che la produzione mediatica di propaganda dell’Isis è molto ben orchestrata, tanto da fare pensare a una regia unica. Sintetizziamo alcune caratteristiche di quello che il pubblicitario Bruno Ballardini definisce marketing religioso a fini di guerra. La narrazione dell’Isis è orientata alla costruzione dell’immagine del nemico (l’Occidente e chiunque si discosti dal fondamentalismo islamico e in particolare dall’ideologia salafita) e alla costruzione della fascinazione per il jihad; è condotta nell’ambito di numerose case di produzione (tra le più importanti al-Furqan Media e al-Hayat Media Center) che applicano alla perfezione le tecniche di montaggio, di scrittura e di spettacolarizzazione a cui è abituato il pubblico occidentale; è rivolta sia all’esterno, alla ricerca di potenziali reclute (foreign fighters utili alla realizzazione del progetto di conquista territoriale), sia all’interno, in modalità autocelebrativa, per fare proseliti e galvanizzare e tenere informati i sostenitori dell’Isis.
A differenza dei talebani di Al-Qaeda guidati da Osama Bin Laden, lo scopo dell’Isis non è infatti solo quello di attaccare l’Occidente, ma di costruire un vero e proprio stato, con una propria forza politica, economica, militare: il Califfato, una sorta di versione moderna dell’antico impero Ottomano (allorquando il “Califfo”, discendente di Maometto, si poneva come guida politica e religiosa di tutti i musulmani). Come puntualizza Loretta Napoleoni, economista e analista politica, l’Isis si pone un obiettivo ambizioso che costituisce un’enorme forza di attrazione per i musulmani fondamentalisti di tutto il mondo: “Nessuna precedente organizzazione armata mediorientale era stata in grado di promuoversi quale nuovo potere politico della regione, e per di più, con il denaro dei ricchi sponsor del Golfo” (2014, p. 15).
Inoltre, la pianificazione della narrazione dell’Isis si basa su una strategia transmediale: i contenuti di propaganda sono diffusi e rimbalzano su piattaforme diverse che vanno dai media tradizionali (riviste specializzate come Islamic State Report o Dabiq, network radiofonici e televisivi come al-Kata’ib News Channel, produzioni cinematografiche come il colossal docu-fiction del 19/9/2014 Flames of war che esorta i soldati dell’esercito di Assad a disertare e a unirsi all’Isis) ai social media (pubblicazione online di banner, video, filmati, e-book – editi dalla Black Flags Ebooks Series -, uso di Twitter, Facebook, Instagram, ecc.).
La comunicazione, come dicevamo, è decentralizzata: non vi è un unico sito o account online che può venire oscurato, ma vi è un’immensa produzione di materiali video che vengono annunciati su Twitter e poi ospitati da siti “civetta” divenendo in alcuni casi virali. Il target è costituito soprattutto da giovani, futuri cittadini dello Stato Islamico (in particolare, nella comunicazione esterna, dai migranti musulmani di seconda e terza generazione), sia maschi che femmine (se i ragazzi sono incitati a partecipare al “gioco” della guerra, le ragazze a divenirne le mogli, con un ruolo subordinato stabilito dall’applicazione rigida della sharia).
I contenuti della propaganda sono prodotti con una strumentazione sofisticata: l’uso di più telecamere, effetti speciali sonori e visivi (come l’audio logo quasi onnipresente nei video dell’Isis, il rumore metallico di una scimitarra che viene sguainata). Per alcuni filmati sono stati addirittura utilizzati droni controllati da iPad per effettuare suggestive riprese dall’alto, come quella che mostra la lunga marcia dell’Isis dalla Siria all’Iraq nel video Grand Theft Auto: Salil al-Sawarim (nome che sfrutta il successo planetario di un videogame basato sul tema del ladro di auto, sostituito con quello della celebrazione della carriera dello jihadista).
Il fatto di rivolgersi prevalentemente ai giovani implica il tentativo di attrarli costruendo una comunicazione ludica, tramite video e filmati a metà strada tra l’action e il videogame, nei quali la violenza è rappresentata in stile hollywoodiano, con effetti retorici come la suspence derivata dall’uso strategico della colonna sonora e da rituali ormai riconoscibili per la serialità di molte di queste comunicazioni. Ad esempio in svariati video si riscontra la presenza del medesimo rituale del prigioniero inginocchiato in tuta arancione (a ricordare il colore delle tute indossate dai prigionieri nel carcere di Guantanamo, oggi in chiusura come ha annunciato Obama, anche per l’effetto boomerang che ha prodotto, in quanto si suppone che parte del gruppo dei jihadisti dell’Isis provenga proprio da lì) e del boia vestito di nero incappucciato; seguono dichiarazioni sia del prigioniero che del boia (sembra che abbiano imparato a memoria un copione) fino allo sgozzamento che è solo accennato (l’omissione del gesto permette di dare un’enfasi ancora maggiore), per concludere mostrando la testa decapitata appoggiata sul resto del corpo. L’orrore che ne deriva è frutto di una mescolanza di realtà e finzione.
Tutto è studiato nei minimi dettagli con l’intento di produrre determinate reazioni nel pubblico. L’immagine del boia che nel video intitolato A Message to America (19/8/2014) sullo sfondo del deserto agita un coltello e “guarda in macchina” rivolgendosi e minacciando Barack Obama sfrutta ad esempio l’effetto sorpresa di una sfida eroica, apparentemente improbabile (uno contro tutti), ma efficace. Infine ricordiamo la prassi di utilizzare molte lingue oltre l’arabo (inglese, francese, russo, ecc.) e l’utilizzo di “testimonial” occidentali per ricordare al mondo che i terroristi islamici non sono un’entità lontana, ma sono già fra voi: dal rapper londinese (il boia ribatezzato Jihadi John che nel video sopracitato dopo avere minacciato Obama decapita il giornalista americano James Foley), al giornalista inglese John Cantlie (catturato nel 2012 assieme a Foley) che con la serie video Lend me your ears diventa suo malgrado il portavoce ufficiale dell’Isis. Gli strateghi della comunicazione dell’Isis, consapevoli dell’effetto di spiazzamento che ciò può produrre nel pubblico occidentale, hanno infatti deciso di sfruttare le competenze professionali di un ostaggio, che passa dall’indossare la tuta arancione del prigioniero ad abiti civili nel video From Inside Mosul (3/1/2015). A cavallo di una motocicletta accompagna il pubblico in una visita guidata della città conquistata dall’Isis dichiarando: “Questa non è una città che vive nella paura, come i media occidentali vorrebbero far credere. Questa è solo una città normale che svolge le proprie attività quotidiane”.
Come afferma Ballardini la rete, che avrebbe dovuto portare democrazia, risvegliare le coscienze e liberare l’umanità si sta trasformando nel più efficace dispositivo per controllare, manipolare e deformare la realtà: “Sul piano mediatico l’ISIS rappresenta in un certo senso l’11 settembre di Internet, la prima grande sconfitta della rete” (2015, p.7). Si può allargare il ragionamento osservando che se gli jihadisti dimostrano di conoscere l’arte della propaganda politica, ricalcando le orme di regimi totalitari (come il nazismo e il fascismo) che hanno saputo sfruttare sapientemente i media, i giganti della rete che si ergono a difesa dell’Occidente nel condurre la controffensiva mediatica candidamente ammettono di potere intervenire (e dunque modificare, manipolare, orientare le scelte) sulle ricerche online effettuate dagli utenti. La rete sembra davvero essere una ragnatela di contro/informazioni, ossia di diverse e molteplici visioni del mondo in cui è sempre più difficile orientarsi poiché nulla è come appare.
Bibliografia<(strong>
  • Ballardini B. (2015) Isis. Il marketing dell’Apocalisse, Baldini & Castoldi, Milano.
  • Maggioni M., Magri P. (a cura di) (2015), Twitter e Jihad: la comunicazione dell’Isis, Epoké, Novi Ligure.
  • Napoleoni L. (2014), Isis. Lo stato del terrore, Feltrinelli, Milano.
  • Saveria Capecchi è docente di Sociologia della comunicazione multimediale presso l’università di Bologna.
    Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 29 febbraio 2016

    Aiutaci a diffondere il giornalismo libero e indipendente.

    Articoli correlati