di Raniero La Valle
Ci vuole del coraggio ad assumere come tema di questo convegno il lavoro, nel momento della sua massima crisi. Le riflessioni svolte fin qui hanno mostrato come il lavoro non sia un tema circoscritto, un segmento dell’esperienza umana, ma investa l’intera esistenza, l’intera concezione e l’intero destino umano, sia che lo si discuta in sede teorica, sia che lo si canti nelle canzoni di dolore e di protesta, sia che sia oggetto dello scontro sindacale e politico. Come ha detto il vice-sindaco di Messina nel suo intervento di saluto, il fallimento del lavoro, di un lavoro, è il possibile fallimento dell’esperienza umana.
Pertanto si può stabilire un rapporto tra lavoro e civiltà, prendere il lavoro come misura della civiltà, e identificare la storia del lavoro con la storia della civiltà. E in questo quadro noi possiamo fissare un giorno preciso in cui la civiltà ha raggiunto il suo culmine: ed è stato nella seconda metà del ‘900 quando in Italia, il 20 maggio 1970, è stato promulgato lo Statuto dei diritti dei lavoratori; da lì poi è cominciato il declino, una discesa che ora sta diventando un precipizio.
Ma è molto significativo che quando nel Novecento il lavoro ha raggiunto la sua massima forza e il più alto riconoscimento della sua dignità, esso non è giunto a questo approdo da solo, ma insieme a molte altre istanze sociali e ad altre conquiste. Lo Statuto dei diritti dei lavoratori è arrivato infatti, tra gli anni sessanta e settanta del secolo scorso, con molte altre cose grandi e preziose.
Il 12 dicembre 1962, come volano d’avvio del centrosinistra si è avuta la nazionalizzazione dell’energia elettrica con una legge firmata da Fanfani, Colombo, La Malfa, Tremelloni; essa consacrava l’idea che le grandi risorse non dovevano essere fonte di speculazione privata, ma dovevano essere messe al servizio dell’utilità comune. Il 31 dicembre 1962 era la volta della Scuola media statale obbligatoria, per una scuola che fosse veramente una scuola di tutti, di cui anche gli sfavoriti, i disabili fossero al centro; il 6 agosto 1967 arrivava la legge urbanistica che offriva ai comuni lo strumento dei piani regolatori, innovando per la prima volta la materia dopo la legge urbanistica del 1942; nel febbraio 1968 si faceva la legge per l’elezione dei consigli regionali e con i provvedimenti finanziari del 16 maggio 1970 per l’attuazione delle regioni si poteva giungere alle prime elezioni regionali nel 1970; l’11 dicembre 1969 c’era la legge per l’Università.
Negli anni Settanta a maggio, insieme allo Statuto dei lavoratori c’è la legge per l’indizione dei referendum, nel 1972 la legge sull’obiezione di coscienza, nel maggio 1974 si celebra il primo referendum abrogativo, quello sul divorzio, nel 1974 si legifera sul finanziamento pubblico ai partiti, per evitare che la politica fosse fatta solo dai ricchi; del maggio 1975 è la riforma del diritto di famiglia; il 13 maggio 1978 la legge Basaglia, la famosa 180, rimette in libertà i malati psichiatrici e, nei manicomi, attacca le istituzioni totali, il 22 maggio 1978 è approvata la 194 sulla depenalizzazione dell’aborto (una legge la cui vera attuazione anche nelle sue norme preventive e sociali è oggi reclamata perfino da coloro che le furono fieramente contrari); nel dicembre 1978 si ha il Servizio sanitario nazionale che nonostante tutte le sue disfunzioni e corruzioni ha fatto degli italiani uno dei popoli più longevi del mondo; ma intanto il 9 maggio è stato ucciso Moro, e tutto finisce.
Certo, sono cose del passato, quelle che secondo Renzi rivendicare oggi sarebbe come voler mettere un vecchio rollino fotografico dentro una macchina digitale. Però questo è stato il punto più alto a cui era giunta allora la civiltà del lavoro e del diritto. Bisogna dire però che la storia di questa ascesa, fino all’apice raggiunto negli anni 70, è stata lunghissima, difficile, contrastata. Non è stato un progresso lineare ma una storia con continue rotture e cadute. Ed è una storia che dobbiamo brevemente ricordare, se no non capiamo neanche che cosa accade oggi.
Come era cominciata la storia del lavoro?
Era cominciata male la storia umana riguardo al lavoro. In principio c’era stato il lavoro divino della creazione; era stato un vero lavoro, come lo racconta la Genesi, tanto è vero che il settimo giorno Dio si riposò. E col riposo di Dio, comincia il lavoro dell’uomo. Ma solo il lavoro di Dio era stato considerato divino, e i prodotti del suo lavoro erano stati da lui stesso definiti come buoni, molto buoni. Invece il lavoro dell’uomo è cominciato sotto il segno dell’infermità, è stato legato al peccato e comminato come pena.
Dunque all’inizio, c’è una grande ingiustizia nei confronti del lavoro. Il lavoro è comune a Dio e all’uomo, lavorano tutti e due; ma il lavoro divino è una benedizione, il lavoro umano è una maledizione. Questa antinomia si prolungherà per tutta la storia, perché per il suo lavoro Dio continuerà ad essere benedetto nei secoli come autore di quella cosa meravigliosa che è il creato, mentre per l’uomo il lavoro resterà come una maledizione per secoli.
I fraintendimenti di Dio
Naturalmente questa antinomia tra il lavoro di Dio e il lavoro dell’uomo non era vera. Anzi quello è stato il primo fraintendimento di Dio che c’è nella Bibbia. Come ormai sappiamo la Bibbia è la parola della rivelazione di Dio, ma è anche il luogo dei fraintendimenti di Dio, perché solo gradualmente gli uomini sono pervenuti alla conoscenza e alla comprensione di Dio, e solo alla fine questa conoscenza è giunta alla sua pienezza nel Cristo. In tutta la Bibbia, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, c’è uno scarto tra il Dio come viene compreso e raccontato dagli scrittori sacri, e il Dio di Gesù, il Dio invisibile che si rende visibile nell’immagine di Gesù Cristo.
Uno dei casi più vistosi e più distruttivi del fraintendimento di Dio è quello del Dio violento. È evidente che il Dio che noi oggi conosciamo non è il Dio sterminatore di certe pagine della Bibbia; ma è inutile che cerchiamo di fare delle acrobazie interpretative per dire che quelle pagine non sono così violente come sembrano, che esse parlerebbero non della violenza ma della pedagogia di Dio. Un recente documento della Commissione teologica internazionale – organismo di teologi di nomina papale dotato di un’elevata autorità dottrinale – ha detto che in quelle pagine si parla veramente di Dio, però c’è un fraintendimento di Dio, e che solo dopo un lungo cammino di lettura della Parola e di ascolto dello Spirito la comunità credente ha potuto superare gli stereotipi, le culture, i linguaggi, in cui erano incastonate quelle false rappresentazioni di Dio.
Dunque se c’è uno sbaglio su Dio quando lo si descrive come un Dio pronto all’ira, vendicatore e violento, c’è anche uno sbaglio su Dio quando nella Genesi lo si rappresenta come colui che avrebbe fatto del lavoro dell’uomo la pena del peccato: “Con dolore dal suolo trarrai il cibo, con il sudore del tuo volto mangerai il pane” dice Gen. 3, 17-19; e siccome la pena non è una pena se non è afflittiva, aver fatto del lavoro una pena vorrebbe dire aver fatto del lavoro una ragione di tormento, di afflizione, di mortificazione e in definitiva di servitù.
Questo è un punto fondamentale: nel modo in cui è pensato il lavoro, nel modo in cui viene trattato il lavoro, c’è tutta un’antropologia. Secondo l’antropologia del lavoro come pena, ad esempio, il lavoro sarebbe un male da cui liberarsi; e infatti certe ideologie influenzate da questa antropologia negativa hanno fatto della liberazione dal lavoro un obiettivo e un’utopia politica. Ne parlo al passato perché si tratta di ideologie ormai superate. Liberato dal lavoro l’uomo, secondo queste ideologie, sarebbe stato pronto per il salto nell’assoluto. Oggi siamo in presenza di un rovesciamento totale: nella predicazione di papa Francesco, ma ancor prima in quella di Giovanni Paolo II, il lavoro è considerato come una necessaria dimensione della dignità umana. E noi oggi sappiamo che il lavoro è una maledizione e una pena solo perché gli uomini lo rendono tale, lo assoggettano e lo sfruttano, non perché Dio ne abbia fatto una maledizione e una pena. E se questo è vero oggi non poteva che essere vero anche allora, nei giorni della creazione, perché Dio è sempre lo stesso. Dunque la Bibbia si era sbagliata.
Il lavoro dell’uomo ha in effetti un tutt’altro statuto nell’economia divina; secondo Giovanni Paolo II il lavoro umano rientra nel dato specifico per il quale l’uomo è ad immagine di Dio, ad immagine di Dio che lavora. Si potrebbe sviluppare il discorso del lavoro come componente dell’immagine, e poiché l’immagine di Dio nell’uomo consiste essenzialmente nella libertà (così diceva San Bernardo) si potrebbe sviluppare il discorso del rapporto – sia in Dio che nell’uomo – tra lavoro e libertà. Un tema affascinante che però dobbiamo lasciare ad un’altra occasione.