di Vittorio Rieser
Il problema da cui partirò per queste “riflessioni senili” è il seguente: ci troviamo di fronte a una crisi del capitalismo altrettanto e più profonda di quella del 1929. Come mai il movimento operaio, la sinistra in generale, non ne “approfittano” per rafforzarsi, ed avanzare o realizzare (almeno parzialmente) una proposta alternativa? E anzi sembrano toccare il loro punto massimo di debolezza?
Intendiamoci: dietro questi interrogativi non c’è una “ideologia crollista”, per cui la crisi del capitalismo dovrebbe portare al suo crollo e alla vittoria della rivoluzione. Neanche la crisi del 1929 portò a questo. Anzi, portò anche a risposte aberranti del movimento operaio, come la linea del “social-fascismo” adottata per alcuni anni dal Komintern. E portò all’avvento di una dittatura di destra come quella nazista. Ma determinò anche (sia pure, spesso, “a scoppio ritardato” – l’espressione è adatta, visto che c’è di mezzo la seconda guerra mondiale) a conseguenze importanti e “progressive” per il movimento operaio: il New Deal negli USA, le politiche di full employment e del welfare state in Gran Bretagna, e più in generale contribuì all’avvio di quel trentennio “socialdemocratico-fordista” che segnò un indubbio avanzamento per la classe operaia nell’Occidente capitalistico.
Insomma, allora la “risposta del capitalismo alla sua crisi” dovette introiettare alcuni “fattori esterni”, legati all’azione del movimento operaio. Come mai non c’è oggi alcun segnale in un’analoga direzione, e anzi la sinistra e il movimento operaio sembrano toccare il loro massimo punto di debolezza nell’Occidente capitalistico? Come mai le alternative di risposta sono tutte interne al capitalismo – e rischiano di ridursi alle due opzioni (“hegeliana” e “schmittiana”) prospettate da Ulrich Beck? (Le troviamo in un’interessante intervista, comparsa su “Repubblica”, che si riferisce in particolare all’Unione Europea. Come si vedrà, anche queste note sono “eurocentriche”, quando non addirittura “italocentriche”).
Perché “senili” queste riflessioni
Perchè “riflessioni senili a ruota libera”? per una duplice ragione: (i) vengono da un militante “vecchio”, che cioè si è formato nella fase di lotta di classe che va dalla fine degli anni ‘50 al 1980, cioè una fase profondamente diversa dall’attuale (sia dal lato capitalistico che da quello dei movimenti di lotta) – e non è detto che gli strumenti teorici adatti a interpretare quella fase e ad intervenire su di essa funzionino oggi; (ii) perché questo vecchio militante è oggi fuori da un impegno politico organizzato, e quindi da quella conoscenza diretta, quotidiana della situazione di classe che tale impegno comportava (quando era vero, cioè pratico, e non era lo pseudo-impegno di tanti intellettuali di sinistra).
Quindi, una riflessione “datata” che forse non riesce a cogliere adeguatamente i problemi reali di oggi, nella loro dimensione “pratica”. Ma secondo me sarebbe sbagliato rinunciarvi in nome di un generico “criterio cronologico”. È opportuno disaggregare vari aspetti di questo “essere datato”. Infatti, nelle riflessioni che propongo, ci sono – aspetti su cui ritengo siano riproponibili strumenti e criteri che giudico tuttora validi – aspetti su cui criteri e strumenti vecchi vengono proposti faute de mieux- aspetti su cui il carattere “datato” delle mie riflessioni porta a una dichiarata incapacità di risposta.
Mi sembra, tra l’altro, che questo sia un modo più efficace rispetto al problema, che ritengo importante, di “trasmettere la memoria di classe”: la pura “rievocazione” (spesso apologetica) funziona solo per i “reduci”, cioè “quelli che c’erano”, mentre un bilancio critico può essere più interessante anche per “quelli che non c’erano”.
Ciò che ritengo valido di un’esperienza “vecchia”
Quali sono gli elementi da cui non posso prescindere, perché li ritengo tuttora validi? Schematicamente:
- l’analisi (marxiana) delle contraddizioni del capitalismo
- l’analisi di classe in rapporto a queste contraddizioni, cioè non solo l’analisi delle loro conseguenze oggettive sul proletariato (con “proletariato” si intendono qui tutti quelli che, in forme diverse, vendono la loro forza-lavoro al capitale), ma delle reazioni “soggettive” che il proletariato ha di fronte ad esse
- quindi, il metodo dell’inchiesta – per cogliere anche quest’ultimo aspetto – e della costruzione di una linea di massa che “raccolga dialetticamente” gli elementi scaturiti dall’analisi oggettiva e dall’inchiesta (ci riferiamo qui sinteticamente all’impostazione di Mao Zedong, che ha formulato in modo più esplicito e compiuto questo “metodo politico” – di cui però si trovano già esempi parziali od “allusivi” in Lenin e in Marx).
Ma chi può fare l’inchiesta e raccoglierne dialetticamente gli elementi per costruire una linea politica di massa? Questo porta al punto cruciale (e “dolente”) dell’organizzazione politica (e quindi, come vedremo, il secondo e terzo di questi “punti validi” vengono oggettivamente posti in forse).
Si è rotta la continuità politica organizzata del movimento operaio È proprio sul terreno dell’organizzazione politica del movimento operaio che si è realizzata la più profonda rottura di continuità. Le contraddizioni del capitalismo han continuato a svilupparsi e ad acutizzarsi, sia pure cambiando, a partire dalla crisi del fordismo, le lotte di classe pure – in forme spontanee od organizzate, vecchie o nuove – ma le forme e le linee di organizzazione politica che tentavano di rispondervi o di organizzarle sono progressivamente scomparse dalla scena.
Due fattori hanno agito in questo senso:
- la crisi/scomparsa del socialismo reale ha privato del riferimento a una possibile società alternativa al capitalismo: riferimento sempre più blando e con “prese di distanza” nei partiti comunisti dell’Occidente, ma che comunque incideva sul “senso comune” delle masse e – soprattutto – sulla politica degli stati capitalisti
- anche prima di questa fine, si è avviata una conversione neo-liberista di gran parte dei partiti socialdemocratici e comunisti, che – tra l’altro – li ha poi lasciati disarmati di fronte a una crisi prodotta proprio dal ritorno di un capitalismo più liberista (e più globalizzato) di prima.
- lotte che assumono come inevitabile l’orizzonte capitalistico attuale, e cercano di scavarsi “nicchie difensive” al suo interno (molte lotte operaie, anche durissime, sono di questo tipo)
- lotte che assumono obiettivi radicali (ad es. ecologisti) senza porsi il problema se questi sono compatibili con l’attuale società capitalistica, e quindi senza porsi il problema di quali modifiche complessive di questa società siano necessarie per realizzarli.
- i movimenti “no-global” (o, per usare un linguaggio politically correct, “altermondialisti”)
- i recenti movimenti degli indignados;
- movimenti ecologisti, anti-nuclearisti, e – con elementi per certi versi affini – movimenti come quello no-Tav.
Il risultato è che le lotte di classe dagli anni ’80 in poi si sono progressivamente trovate prive di un riferimento politico organizzato, che le unificasse in funzione di una prospettiva di alternativa (anche parziale e “interna”) alla società capitalistica; anche parziale, com’erano le varie forme di “diverso modello di sviluppo” proposte dalle sinistre in anni precedenti. Come ha potuto prodursi tutto questo? La categoria del “tradimento dei gruppi dirigenti” della sinistra è certamente una semplificazione insufficiente, ma forse è più reale di quella della “integrazione/subordinazione delle classi lavoratrici”: le lotte, sia pure “sparse”, contro una situazione di progressivo peggioramento lo dimostrano.
Tale categoria va però “maneggiata con cautela”, anche se non scartata. Per fare l’esempio italiano: non v’è dubbio che i gruppi dirigenti dell’ex-PCI, che ne hanno promosso il progressivo dissolvimento, avessero in mente il progressivo abbandono di una prospettiva di classe e la relativa conversione al neo-liberismo, come espressione delle “inevitabili leggi del capitale”, giudicato come “stato naturale ed eterno” (quasi che l’analisi critica del capitalismo fosse un “ciarpame stalinista” da buttare). Ma questi gruppi erano cresciuti e si erano affermati nel vecchio PCI – tant’è vero che l’ultimo Berlinguer vi si trovava minoritario – e ci sarà pure una “ragione oggettiva” da indagare… Non a caso, elementi di una impostazione neo-liberista (o, nel migliore dei casi, “neo-corporativa ritardata”: si veda la strategia della concertazione) hanno contagiato anche organizzazioni come la CGIL, relativamente autonome dal processo innescato nel PCI dalla crisi/crollo del socialismo reale e dall’interpretazione che ne hanno tratto i suoi gruppi dirigenti (NB: come si può vedere, il capitalismo non crolla, ma il socialismo sì…).
La categoria del tradimento dunque non va scartata ma in ogni caso non spiega tutto: quindi, tra l’altro, non basta una “organizzazione non traditrice” per ricostruire… Il fatto è, comunque, che oggi il proletariato – in Italia come in Europa – manca di un’organizzazione politica che sia in grado di dare una “prospettiva unificante” alle sue lotte – neanche nella forma indiretta di sostegno a quei sindacati che, talvolta, le organizzano direttamente.
Il problema della costituzione della coscienza di classe
La coscienza del proletariato non si forma solo attraverso l’esperienza della propria condizione, ma anche attraverso le esperienze di lotta – e, su ambedue questi livelli, interviene l’interazione con le organizzazioni del proletariato stesso. In assenza o debolezza di questa interazione, l’elaborazione a partire dall’esperienza di condizione e di lotta rimane al livello di “senso comune”, cioè di elaborazione spontanea ed approssimativa, e non di coscienza di classe, cioè di elaborazione più sistematica e “politica”.
Quindi, la prolungata assenza di una “prospettiva alternativa” da parte delle organizzazioni del movimento operaio ha fatto sì che nel “senso comune di massa” si siano radicate idee delle classi dominanti, che “davano conto” dell’esperienza di classe in modi non contestati da qualche altra interpretazione: il “capitalismo liberista-globalizzato” non è – certo – un miglioramento per la condizione dei lavoratori (anzi è il contrario – e i lavoratori lo sanno benissimo), ma è un processo inevitabile, di fronte a cui nel migliore dei casi bisogna “arrangiarsi”, difendendosi come e dove si può. Al tempo stesso (per certi versi paradossalmente) la “caduta” di un orientamento di classe politico ed organizzato ha offuscato la coscienza di cosa è possibile in questa società capitalistica e cosa no.
Di qui – schematicamente – due tipi di lotte (perché le contraddizioni della società capitalistica comunque producono lotte!):
Tuttavia non sono mancati in questi decenni movimenti e lotte
Negli ultimi decenni, non son mancati nell’Occidente capitalistico (che, come ho detto, è l’orizzonte, certo limitativo, di queste note) grandi movimenti di lotta contro l’assetto sociale esistente, che hanno coinvolto milioni di persone. È persino banale ricordarli sommariamente:
Questi movimenti hanno avuto ed hanno caratteri di netta opposizione all’assetto sociale e politico esistente, anche quando non assumono esplicitamente una ideologia anti-capitalista. La loro composizione sociale è varia, e vede una forte componente giovanile, ma non è assente in essa la classe operaia. Tuttavia, in genere, la loro durata è limitata o “intermittente”, ed essi ottengono risultati solo quando il loro orizzonte è più limitato e “locale”.
Ma anche le lotte operaie nel senso più specifico e “tradizionale” non sono mancate, e il loro carattere di contrapposizione di classe non è venuto meno. Tuttavia, la crisi economica fa sì che esse siano prevalentemente difensive e spesso si chiudano in un ambito circoscritto di difesa immediata (con possibili rischi, in vari casi anche se non in tutti, di “chiusura corporativa”). Come ho detto, si sente la mancanza di forme di organizzazione politica che colleghino questi movimenti a un orizzonte complessivo e gli diano continuità.
Risposte teorico-politiche per ora deboli alla questione
Ci sono stati, e ci sono, tentativi di ricomprendere questi nuovi movimenti e i nuovi aspetti di realtà sociale che esprimono, in una prospettiva strategica globale ed anti-capitalistica: il più delle volte su un piano di elaborazione teorica, qualche volta anche su un piano organizzativo-politico. Talvolta queste elaborazioni vengono da esponenti della “vecchia generazione” che ripropongono in chiave nuova vecchi schemi, ma altre volte anche da esponenti più giovani e più direttamente legati ai nuovi movimenti. La mia impressione è che in genere questi tentativi operino una sorta di “corto-circuito”, che cioè colgano alcuni elementi importanti di realtà ma poi cerchino una scorciatoia per “far quadrare il tutto”. Per chiarire, farò alcuni esempi – premettendo che la versione semplificata che ne do (talvolta ai limiti del caricaturale) serve per chiarire il ragionamento, e non per una critica articolata e puntuale di tali posizioni.
Un duplice esempio tipico è legato a quella che potremmo chiamare la “ricerca delle nuove centralità”: del nuovo strato sociale “centrale” o della nuova “rivendicazione centrale”. Ambedue in qualche modo provengono dal filone politico-culturale che ha origine in “Classe operaia” e in “Potere Operaio” e nella loro ideologizzazione dell'”operaio-massa”. La ricerca del nuovo “strato sociale centrale” ha portato, di volta in volta, a identificarlo con i “lavoratori autonomi di seconda generazione”, con i “lavoratoricognitivi”, con i precari… Come in passato, queste ideologie dimenticano che i “punti alti” (e più politici) della lotta di classe nascono dall’incontro-alleanza tra settori diversi delle classi oppresse: la rivoluzione russa vince grazie all’alleanza tra operai e contadini (e soldati, in gran parte contadini), ma anche il grande ciclo di lotte operaie italiane degli anni ‘60-70 non è opera esclusiva dell'”operaio-massa”, ma dell’incontro unitario tra questo e gli operai di mestiere e (almeno in parte) settori di impiegati e tecnici.
Analogo discorso può essere fatto per l’ideologizzazione di rivendicazioni di per sé giuste come quella del “salario di cittadinanza”, che spesso viene ipostatizzata sulla base di ideologie che vedono in ognuno di noi, anche quando guarda la televisione, un “produttore di plusvalore”: un obiettivo concreto di lotta, suscettibile di realizzazioni anche parziali, viene così ideologizzato in obiettivo-chiave e risolutivo.
Altre, e più recenti, elaborazioni danno giustamente rilievo alle straordinarie possibilità nuove aperte dalla “rete”, da Internet: aspetto indubbiamente vero, non solo “tecnico”, che è destinato a produrre cambiamenti profondi nelle forme di organizzazione, di lotta o politiche che siano: ma che non costituisce di per sé una “risposta” al problema dell’organizzazione politica, anche se ne modifica profondamente i termini.
Più “tradizionale” è la tendenza, che periodicamente riaffiora, a “scaricare sul sindacato” i compiti che l’assenza di organizzazioni politiche di classe “lascia scoperti”: una tendenza (lasciatelo dire a chi a suo tempo l’ha sostenuta) irrealistica in termini strategici, perché comporterebbe uno snaturamento (e una correlata sconfitta!) del sindacato – il che non vuol dire che questo, in periodi circoscritti, non svolga un ruolo politico più avanzato ed incisivo di quello dei partiti di sinistra (l’abbiamo visto negli anni 60-70 in Italia!): ma, ancora una volta, non è questa la “risposta duratura” al problema dell’organizzazione politica.
Ci sono infine i tentativi di organizzazioni politiche “storiche” di innestarsi sui nuovi movimenti. Tralasciando le “autoproclamazioni” ricorrenti di vari gruppetti della sinistra rivoluzionaria, un tentativo interessante era stato compiuto da Rifondazione nel rapporto col movimento no-global in occasione della conferenza di Genova – con qualche effetto di credibilità, subito dissipato dall’andamento ondivago del suo leader carismatico e da una vischiosità burocratica dell’organizzazione (questione troppo materiale perché il leader carismatico se ne occupasse).
In ogni caso, “senza partito niente rivoluzione”
Be’, e allora? Mi sembra sia ormai fin troppo chiaro che – tra le ipotesi che non considero “superate” – c’è la vecchia, cara idea “senza partito, niente rivoluzione”. Ma chi farà il partito, come lo farà, che tipo di organizzazione sarà – questi sono interrogativi a cui il nostro “vecchio bagaglio” (e l’attuale livello di analisi della situazione di classe) non sono in grado di rispondere, se non con alcune “avvertenze negative”.
Di certo, l’organizzazione politica anti-capitalistica non nascerà dai rimasugli di organizzazioni passate che oggi si aggirano per la sinistra: non da Rifondazione, che non è più neanche un rimasuglio della Rifondazione iniziale, ma un rimasuglio di DP; tanto meno dall’altro “rimasuglio” della Rifondazione originaria. Né, in Spagna, Izquierda Unida e affini o, in Francia, le varie organizzazioni trockiste sembrano elevarsi sopra lo status di rimasugli. Un po’ diverso, forse, è il caso della Linke in Germania, per le radici che ha anche nel mondo sindacale.Ma non è solo questione di quantità, è che la nascita di un’organizzazione politica anticapitalistica richiede una rottura di continuità. Ciò non significa che – anche in questa situazione di domande senza risposta – non vi si possa contribuire in modo indiretto e parziale: la costruzione di nuclei di lavoratori con un orientamento politico di classe può fornire alcune tessere (scusate l’involontario gioco di parole) di un futuro mosaico.
Per ora, l’unica prospettiva che si può approssimativamente ipotizzare è quella di un processo in cui, a partire dalle esperienze dei movimenti di lotta, venga costruita una forza politica organizzata, che provi a tradurre questi movimenti e le loro esperienze di lotta in un progetto complessivo di trasformazione della società. In più, tutto ciò può aver senso solo se avviene a un livello internazionale di ampiezza e rilevanza sufficienti perché un tale progetto possa avere una concreta prospettiva di realizzazione (ad es. a livello europeo).
Buona fortuna, compagni!
Questo articolo è stato pubblicato su Inchiesta online il 26 maggio 2014