Novecento e Duemila: alla ricerca delle ragioni di un cambiamento così profondo

22 Gennaio 2014 /

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di Rossana Rossanda
Anzitutto ringrazio la professoressa Urbinati e gli amici Gabriele Polo e Gianni Rinaldini per aver accettato di discutere su questo mio ultimo lavoro. Se avessi avuto la possibilità di partecipare a questa serata, avrei precisato questi punti su cui mi interessa il loro parere:

  • a. Il filo di un discorso che arriva fino alla fine del secolo, almeno nella generazione dei politici ancora tradizionali – per la parte non corrotta di essi – è quello che considera ancora, sulla base della cultura del dopoguerra, che l’ipotesi socialista o socialdemocratica, accanto a quella più radicale, o almeno quella delineata dalla rivoluzione francese, rimane valida come principio democratico. Essa comporta, come è noto, un’apertura verso una più compiuta democrazia sociale o addirittura socialista, che rimane come un’opzione riconosciuta almeno in Europa fin dopo la caduta del muro di Berlino.
  • b. L’attacco politico a queste ipotesi più evidente si svolge nel corso degli anni ’70 e poi ’80: prima con le vittorie di Thatcher e Reagan, poi con la caduta del muro di Berlino e la negazione dal punto di vista teorico della stessa possibilità di esistere di una società di “socialismo reale”.

  • c. La domanda che per me rimane aperta è perché queste ipotesi siano cadute appunto con la fine del secolo; cadute non solo di fronte al loro nemico storico – dal punto di vista teorico il liberismo di Von Hayek e dal punto di vista politico le potenze occidentali capitalistiche, come gli Stati Uniti – ma anche nella cultura che era stata delle sinistre e in particolare nei partiti comunisti e socialisti e più profondamente nella testa delle nuove generazioni. Penso che non si tratti soltanto di una aggressione da parte del nemico storico del socialismo o del progressismo, ma anche di alcune debolezze delle sinistre, intese nel senso più vasto; certo mi pare che si debba ammettere che alcune di queste debolezze stavano anche nel ’68, che in Francia è durato non più di un anno o due e in Italia quasi un decennio, nelle sue differenti forme, ma che ormai ha lasciato dietro di sé una rivoluzione passiva nei consumi e alcuni filoni culturali.
  • d. Non si è ancora chiarito il perché di questo crollo di un pensiero che aveva forti radici in Europa, e agiva non solo nelle correnti “rivoluzionarie” ma nel complesso del pensiero democratico e che nel dopoguerra ha ispirato anche le costituzioni, in primo luogo quella italiana. Non penso che lo si debba a una trasformazione tecnologica pur importante che è avvenuta nella organizzazione capitalistica, o almeno penso che questo sia piuttosto un esito che una causa; tendo a credere che la incapacità o non volontà di esaminare perché le esperienze di democrazia avanzata o di “socialismo reale” siano implose in se stesse sia una ragione di fondo. Il movimento operaio e soprattutto quello comunista e una parte di quello socialista non hanno cercato di precisare quali siano stati gli errori principali compiuti e le loro conseguenze. Il risultato è che l’assieme delle esperienze che vanno sotto questo nome è apparso o appare, specie alle generazioni più giovani, ma non solo a queste, come una impossibilità storica (non considero molto seria la tesi che si tratti di un puro e semplice tradimento dei gruppi dirigenti più avanzati). Sembrano fare un’eccezione i paesi dell’America latina che stanno sfuggendo al dominio imperialistico che era stato imposto al subcontinente. Ho personalmente però molti dubbi sulla tenuta politica e la direzione su cui si muovono questi “progressismi”.
  • e. La crisi del 2008, che ha visto una vittoria del capitalismo più selvaggio che ha consumato milioni di posti di lavoro e di speranze democratiche e ha visto l’affermarsi all’interno del capitale della sua zona finanziaria, con uno straordinario spostamento di reddito su una parte minima della popolazione (“Nove su dieci”), continua a mietere vittime concrete e vittime ideali. Come assistiamo soprattutto nell’Europa del sud e nelle forma quasi coloniale con la quale la proprietà capitalistica si estende per intere nuove zone del mondo. Fra queste, ci sono anche due grandi paesi capitalistici (trasformazione dell’Urss e della Cina), più la piccola Cuba, nei quali realmente sono stati i gruppi dirigenti a cambiare metodo e fine del loro lavoro; anche qui esiterei a parlare di tradimento, cioè dare una spiegazione di carattere morale, ma cercherei di andare più in fondo. Nei paesi capitalisti come l’Italia e la Francia in particolare, dove esistevano forti partiti comunisti e forti sindacati, la crisi attraversa le sinistre e comporta una caduta generale della stessa fiducia in una politica democratica.
  • f. La caduta dei socialismi reali e delle speranze di massa, in una trasformazione fortemente avanzata, ha trascinato con sé anche il cosiddetto “compromesso” che reggeva la tesi keynesiana o socialdemocratica più avanzata e che ha permeato di fatto le esperienze capitaliste europee del secondo dopoguerra; negli Usa, dove era stata sperimentata da Roosevelt dopo il 1929 e attaccata aspramente nell’immediato secondo dopoguerra con la morte dell’uomo di stato e una ripresa durissima a livello teorico e fin democratico dei suoi successori (vedi il maccartismo). La polemica con il keynesismo e in genere contro qualsiasi intervento pubblico nell’economia ha accompagnato i mutamenti capitalistici e, alle spalle, quelli politici delle zone di influenza americana (Thatcher e Reagan); mentre è oggi proprio dagli Usa (forse in coincidenza con alcune speranze minoritarie del Partito democratico dopo l’elezione di Obama) che viene una polemica secca contro il neoliberismo avanzata da Krugman e Stiglitz. Questa corrente di idee considera folle il tentativo europeo di uscire dalla crisi e di portare a una ripresa attraverso una pura politica monetaria, come quella che si sta facendo con le “austerità”. Non solo, ma il risultato politico più evidente delle scelte di austerità sta in una inclinazione a destra dei gruppi dirigenti europei e in un rafforzamento delle destre – per ora fuori dai governi, fatta salva l’Ungheria – ma probabilmente decisivo nell’orientamento che uscirà dalle prossime elezioni del parlamento europeo.
  • g. Il punto da dibattere oggi è dunque se entro che limite sia possibile spostare l’opinione di massa ma anche parte dei gruppi proprietari, nonché della “sinistra in crisi”, verso una politica di impresa economica, che stabilisca una moratoria anche unilaterale del debito nei paesi del sud europeo. Il manifesto dei 15, pubblicato dall’omonimo giornale, indica alcune aperture significative in questa direzione; non così la vicenda recente del Pd e, per quel che finora si è potuto vedere, delle iniziative del nuovo segretario Renzi.

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