di Vincenzo Maccarrone
“Privatizziamo il suo funerale, facciamo un’asta e accettiamo l’offerta più economica, è quello che avrebbe voluto”. Amante delle frasi ad effetto in vita (“La vera società non esiste. Ci sono uomini e donne. E le famiglie” è forse la più celebre), era destino per Margaret Thatcher essere ricordata da frasi come quelle di Ken Loach, regista britannico da sempre critico nei suoi confronti, o da altre ancor più prosaiche, come quella che potete apprezzare in questa foto.
A qualche mese dalla sua scomparsa possiamo ragionare meglio sul fatto che il trapasso della “Lady di Ferro” casualmente con un periodo di crisi economica che potrebbe segnare la fine dell’era cosiddetta “neoliberista”, aperta proprio dalla sua elezione nel 1979, insieme alla nomina del “falco” monetarista Paul Volcker alla presidenza della FED e alla vittoria di Reagan negli USA nel 1981.
Parola molto spesso abusata, nel lessico politico italiano (specie quello di sinistra) “neoliberismo” è usato per definire indistintamente l’eccessiva finanziarizzazione, la fede nel mercato, le privatizzazioni e l’odio per lo “stato ladro”. La mancanza di chiarezza riguardo a cosa sia effettivamente il neoliberismo è quindi causa di errori nella formulazione di possibili visioni e politiche alternative. Un nuovo New Deal e un vago keynesismo vengono invocati dalle forze politiche “progressiste” come soluzione alla crisi, senza rendersi conto che la cosiddetta età dell’oro del capitalismo (il trentennio 1945-1975) si fondava su condizioni storiche oggi irripetibili, primo fra tutti il fatto che si fosse usciti da una guerra mondiale e che vi fosse quindi spazio per enormi investimenti. Ad esempio il già citato Ken Loach nel suo ultimo lavoro, “The spirit of ’45”, contrappone agli anni della Thatcher il felice periodo post-bellico, in cui nasceva il welfare state, senza rendersi conto che riproporre sic et simpliciter un nuovo ’45 non è possibile.
Un buon punto di partenza per provare a capirci qualcosa sono i lavori degli economisti francesi Dumenil e Levy (“Capitale risorgente”, edito in Italia da Abiblio) e del sociologo britannico David Harvey (“Breve storia del Neoliberismo”, il Saggiatore). Nella visione di questi studiosi, il neoliberismo si caratterizza non tanto e non solo come teoria economica (a cui siamo soliti associare Milton Friedman e la cosiddetta scuola di Chicago) ma anche e soprattutto come «progetto politico che mira a ristabilire le condizioni per l’accumulazione e a ripristinare il potere delle élite economiche» (Harvey, p. 19).
Le politiche messe in atto dai governi Thatcher e Reagan vanno allora lette come risposta all’eccessivo potere guadagnato dalla popolazione lavoratrice durante, appunto, “l’età dell’oro del capitalismo”. L’implementazione di politiche keynesiane e la nascita del welfare state avevano infatti aumentato la quota dei salari rispetto a quella dei profitti, sia sotto il profilo del salario monetario che sotto quello del profilo “sociale” (sanità, pensioni, istruzione,ecc.). Questo compromesso fra capitale e lavoro resse fino a quando la crescita economica non si interruppe negli anni ’70 , il decennio della “stagflazione”. Urgeva allora ricondurre i lavoratori a più miti consigli. Le politiche adottate da Thatcher e Reagan servirono allo scopo. Harvey nel suo libro cita Alan Budd, consigliere economico della “Lady di ferro”, che ammette candidamente che le politiche di rigore degli anni ’80 non erano che un pretesto per colpire i lavoratori e creare – per usare un concetto caro a Marx – un esercito industriale di riserva per spingere i salari verso il basso. Non è quindi un caso che Nicholas Kaldor, economista di scuola Keynesiana, ebbe ad affermare con un filo di ironia che la signora Thatcher sia stata il primo premier marxista della Gran Bretagna (l’episodio è citato nel bel saggio di Riccardo Bellofiore e Joseph Halevi, “Could be raining”).
Comprendere il neoliberismo prima di tutto come lotta di classe dall’alto verso il basso, per usare una affermazione di Warren Buffet, miliardario senza troppi peli sulla lingua, è la chiave per comprendere quelle che, a primo impatto, appaiono come vere e proprie contraddizioni. Ad esempio, se da un lato i teorici neoliberisti predicano la riduzione del ruolo dello stato, in quanto portatore di pericolose distorsioni nelle decisioni degli agenti economici e per la minaccia alla libertà individuale insita nelle sue azioni, dall’altro la contro-rivoluzione iniziata negli anni ’80 è stata permessa anche grazie all’attivo ruolo dello stato, ad esempio nel diminuire il potere dei sindacati (celebre la battaglia della Thatcher contro i minatori, o quella di Reagan contro i controllori di volo). Ancora Harvey ricorda che: «la realtà suggerisce (…) che quando i principi neoliberisti si scontrano con il bisogno di restaurare o sostenere il potere dell’élite, allora i principi sono o abbandonati o così cambiati da apparire irriconoscibili».
Questo è quello che non colgono coloro che guardano come alternativa al neoliberismo il ritorno all’intervento statale. Lo stato non se n’è mai andato, quello che è cambiato sono le finalità che persegue. La crisi, ad ogni modo, ha messo in discussione la teoria neoliberista ma non la sua prassi. Le politiche di austerità praticate dalla troika e dai governi europei in risposta alla crisi dimostrano come sia ancora lontana la nascita di un nuovo paradigma economico e politico in risposta ai profondi sconvolgimenti economici, politici e sociali che stiamo vivendo, come era accaduto nel 1929 con il Keynesismo, e negli anni ’70 con il neoliberismo stesso.
Pensare ad un’alternativa più radicale, tenendo ben presenti condizioni particolari e limiti di quel “capitalismo controllato” che andò in scena nel trentennio postbellico – che, è bene ricordare, riguardò soltanto i paesi occidentali e il Giappone – dovrebbe essere compito di chiunque abbia desiderio di cambiare la situazione.