di Azzurra Sottosanti
Quando ero bambina mia madre mi diceva che da grande avrei dovuto stare attenta a non diventare mai schiava di due cose: un uomo e un lavoro. Lei che, prossima alle nozze, aveva lasciato il fidanzato perché si sentiva soffocata dall’idea del posto fisso. Aveva paura della stasi – diceva – dell’assenza di cambiamenti. Abbandonò l’impiegato comunale e sposò mio padre, elettricista con ambizioni da cantautore. Sono tra scorsi decenni: di un marito nella mia vita neanche l’ombra, men che meno di un lavoro fisso. Sono arrivati gli Anni Zero, gli anni della rivoluzione digitale, di Internet, della democratizzazione del sapere.
Oggi ho 30 anni, una laurea con lode in filosofia, due master in marketing e comunicazione, diverse esperienze di lavoro all’estero, tre stage, numerosi corsi di recitazione e una significativa formazione professionale. Sono l’emblema della mia generazione, quella per cui la precarietà non è una circostanza, ma una condizione esperita quotidianamente. Sei anni fa mi sono trasferita dalla Sicilia a Roma. Ho fatto la commessa, l’insegnante, la cameriera, l’addetta stampa, la consulente d’impresa, l’aiuto-regista, la babysitter, la comparsa, l’attrice, la giornalista, l’organizzatrice di eventi, la segretaria, l’animatrice.
E come molti dei miei coetanei in più occasioni mi sono sentita dire che ero troppo qualificata, addirittura sovradimensionata per poter svolgere il lavoro per il quale mi stavo candidando. Come se la capacità di pensiero trasversale fosse un difetto. Mia madre è diventata la mia agenzia interinale: non passa giorno in cui non mi metta al corrente di un concorso, di un bando di gara, di un provino, di una borsa di studio, della possibilità più o meno remota di un contratto che possa destinarmi a una vita priva di ansie, di incertezze.
L’incerto fa paura perché ti assedia da ogni lato, non ti dà pace. La stabilità, invece, è un terreno su cui mettere radici, porre le fondamenta di una vita che è tutta in divenire. Essere precari oggi non significa essere eroi. Significa essere supereroi. Significa trascorrere notti insonni per cercare soluzioni utili a tappare i buchi. Significa sviluppare tecniche di risparmio e competenze economiche da fare invidia a certi ministri. Significa sfidare le leggi della fisica per riuscire a svolgere due, tre, a volte anche quattro lavori, alcuni dei quali non retribuiti, nella speranza che la dedizione ostinata ti conduca un giorno da qualche parte.
Significa imparare a stare in apnea. Ritrovarsi a 30 anni a chiedere soldi in prestito a dei genitori (quando ti va bene) a cui sai già che non potrai restituirli. Significa rinunciare all’idea di acquistare una casa. Essere precari significa non poter pianificare. Significa imparare a fare la conta di quello che non si può fare e tenerla bene a mente. Vivere da precaria può significare per una donna procrastinare all’infinito l’idea di diventare madre.
Ricordo quando, a conclusione della mia seconda esperienza all’estero, tornai da Marsiglia con una valigia traboccante di entusiasmo e di nuove competenze da investire. Trascorsero mesi durante i quali non solo non riuscii a trovare un’occupazione, ma dovetti addirittura evitare di uscire di casa, poiché non avevo nemmeno i soldi per comprare il biglietto dell’autobus. Vivere da precari significa doversi reinventare ogni giorno, arrabattarsi nelle maniere più fantasiose. Significa guadagnare 500 euro e spenderne 400 di affitto. Significa dover cambiare casa di continuo, in cerca di una soluzione più vantaggiosa.
Significa vedere riconosciuta raramente la propria professionalità. Significa, non di rado, accettare di sottostare a logiche di potere rivoltanti, a promesse di contratti procrastinati ad libitum. Significa accontentarsi di stipendi da fame, di mansioni poco o per niente in linea con le proprie aspirazioni, di ingaggi ridicoli: lavoro nero, co.co.pro, co.co.co, contratti di apprendistato e di stage, richieste di licenziamento dopo due assunzioni a tempo determinato per poter essere, come se nulla fosse, riassunta poco dopo con un contratto a progetto. “E se non ti sta bene, sai quante ne trovo che vogliono fare il lavoro tuo?”
Vivere da precari significa vivere in un perenne stato di eccezione. C’è una profonda differenza tra l’essere selettivi e l’essere schizzinosi. Essere selettivi è un diritto di ogni individuo. Di più, è un dovere. Siamo esseri progettanti che si compiono e si comprendono in base alle proprie possibilità; abbiamo il diritto–dovere di sceglierci, la responsabilità di diventare ciò che siamo. Eppure in un Paese come l’Italia, in cui ad oggi il 70% delle nuove assunzioni non è a tempo indeterminato, io il posto fisso al Comune dell’ex fidanzato di mia madre me lo prenderei eccome.
C’è un racconto di Woody Allen in cui una signorina disperata, facendo il verso a Nietzsche, si rivolge a un investigatore privato perché non riesce più a trovare Dio. “Dio è morto, è morto Dio!” Questo Dio per noi giovani è il futuro. Un futuro al quale possiamo rivolgerci solo compiendo un atto di fede, poiché non ci sono prove certe della sua esistenza. Mi viene da pensare che forse l’unica cosa a tempo indeterminato in questo Paese sia proprio la precarietà. O perlomeno questo è il mio timore più grande.
Questo articolo è stato pubblicato sul mensile dell’Anpi Patria Indipendente, numero 6 del 2013