di Maurizio Matteuzzi, Università di Bologna
Per raggiungere l’intento di potersi attribuire almeno una qualche riforma che non fosse ad uso e consumo dell’azionista di maggioranza, l’agonizzante governo Berlusconi non poteva permettersi di fallire l’approvazione della mitica riforma dell’università. Per attuare quella che è stata una vera e propria controriforma, con introduzione di poteri verticisti e baronali, limitazione dell’autonomia sancita dalla costituzione, attacco al diritto allo studio, gli enormi mezzi di comunicazione di massa a disposizione sono stati scatenati a gettare fango sull’accademia italiana. Devo dire che faceva un po’ impressione sentire deputati e senatori, spesso semianalfabeti, pontificare sul livello della nostra università. E ancor più impressione, che alcuni servili colleghi si siano prontamente messi a disposizione della nuova bisogna.
Si è inoltre molto parlato e straparlato di varie forme di aziendalizzazione della ricerca, intesa in questo contesto come meta assolutamente positiva, con il dio mercato come giudice supremo di ogni cosa, e dunque perché no, anche della ricerca. Inoltre si è cercato di diffondere il messaggio subliminale che, poiché tutto ciò che è pubblico è inefficiente, la ricerca privata, o comunque governata da privati, sia intrinsecamente superiore a quella pubblica, corrotta, malvagia e inconcludente.
Non si vuol dire, qui, che la ricerca privata abbia un ruolo secondario in assoluto, anche se se ne potrebbe discutere; ma sono ben convinto che, per quanto attiene alla ricerca universitaria, le strategie di sviluppo del pensiero scientifico devono essere determinate dagli scienziati e non pilotate da interessi privati; convinzione che non parrebbe, almeno a chi scrive, un’idea così peregrina: forse è meglio chiedere a un chimico come sviluppare la chimica, anziché al proprietario di un calzaturificio.
Il perno dell’argomento di questa campagna mediatica è stato ed è tuttora che l’università italiana è scadente. A riprova, si citano le solite valutazioni, internazionali ed oggettive (“bibliometriche”?), secondo cui gli atenei italiani non compaiono altro che dopo il duecentesimo posto nelle graduatorie mondiali.
Questo assunto, più volte ripetuto come un mantra, è semplicemente un falso clamoroso; come la donatio constantiniana, come i protocolli dei savi di Sion, come i diari di Mussolini, come i 37 corsi di laurea con un solo studente, per quanto riguarda la storia; o, per cambiare genere, come il moto perpetuo, per la fisica, o la quadratura del cerchio, per la geometria. Si può pensare bene (anche se personalmente non me ne so dare una ragione) o male della legge Gelmini, ma si dovrebbe evitare di ripeterne la propaganda ad uso e consumo dei disinformati. Le classifiche chiamate in causa da questo argomento sono basate su indici complessi, che non misurano la qualità della ricerca; o, meglio, quella entra in un “paniere” molto più ampio, i cui indicatori sono prevalentemente dipendenti dalle risorse disponibili, come la qualità dei servizi, o la capacità di attrarre ricercatori stranieri.
Se con questo argomento si fosse voluto dimostrare che l’università italiana è la più sottofinanziata tra i paesi progrediti, questo obiettivo sarebbe stato centrato in pieno. Di converso, se si riparametra la produttività della ricerca rispetto ai finanziamenti, si scopre facilmente che quella italiana è la prima d’Europa, e una delle prime del mondo. Spiacerà a qualcuno, ma è così. Anche se si sta facendo di tutto per evitare questo “fastidioso” dato di fatto, e con un certo successo: più della metà della docenza del Belpaese passa in questi giorni il suo tempo a calcolare mediane fasulle anziché a proseguire i propri studi. Per non parlare delle migliaia e migliaia di ore di burocrazia allo stato puro indotte dai continui cambiamenti, dai numerosi decreti, dai pensamenti e dai ripensamenti ministeriali.
Ma a riprova, al di là delle numerosissime fonti citabili, basta e avanza, per chi vuole capire, il fatto empirico che non appena i nostri ricercatori vanno all’estero, c’è chi li accoglie a braccia aperte, e, soprattutto, non li dà indietro per nessun motivo, vedi i numerosi flop dei vari provvedimenti sul “rientro dei cervelli”.
Purtroppo è una grave verità che l’industria italiana investe poco nella ricerca; e non soltanto all’interno dell’università, ma anche dentro ai suoi propri dipartimenti di ricerca e sviluppo (quando ci sono, il che non è così frequente come si penserebbe). Ma se l’industria italiana non investe in ricerca, siamo sicuri che ciò dipenda dall’Università? L’esempio a volte citato di grandi aziende che evitano l’Italia è abbastanza paradigmatico, ma non credo di avere qui lo spazio per approfondirlo con la strumentazione che ci vorrebbe.
Ma mi permetto almeno di suscitare un dubbio: siamo sicuri che non vi siano altre ragioni, diciamo, di ordine burocratico, fiscale, e, suvvia, diciamolo, “politico”, per cui tali aziende prediligano altri lidi? E, rispetto all’industria nazionale, non ci saranno responsabilità e miopie da cercare anche altrove, fuori dalle mura accademiche? Con ciò non si vuol dire, naturalmente, che l’accademia sia esente da colpe; ma questo pare il classico caso in cui, come direbbe Aristotele, si deve fare prevalere la giustizia geometrica e non quella distributiva. Dare a ognuno in identica misura a volte è somma ingiustizia; ognuno dovrebbe prendersi le proprie colpe in proporzione a come opera.