di Sergio Brasini
Martedì 16 ottobre 2012 è una data da non dimenticare, che segna una svolta importante nella vita plurisecolare dell’Alma Mater Studiorum. Infatti, in applicazione del nuovo statuto e delle deliberazioni degli organi accademici, si spengono oggi le 23 facoltà e prendono vita le 11 scuole, comprensive di presidenze e vice presidenze, così come concludono il loro percorso le vecchie strutture dipartimentali per fare spazio ufficialmente e definitivamente alle nuove 33.
La riorganizzazione dell’ateneo di Bologna è profonda e coinvolge intensamente tutte le sue componenti (docenti, ricercatori e personale tecnico-amministrativo in primis). Poiché l’approvazione finale del nuovo statuto è avvenuta circa un anno fa, sarebbe stato lecito attendersi da parte dell’attuale governance di Unibo una cura minuziosa e un’attenzione capillare nel dare attuazione al passaggio al nuovo modello di organizzazione, anche in virtù delle rigide scadenze interne autonomamente fissate dagli organi.
Spiace molto constatare invece che il caos prevale tuttora sull’ordine e che il disorientamento ha il sopravvento sulla consapevolezza di sé e del proprio ruolo. In questi ultimi mesi vi è stato un formidabile deficit di comunicazione interna da parte dei vertici istituzionali dell’ateneo nei confronti dell’ampia ed eterogenea comunità accademica. Sono mancati più di ogni altra cosa coinvolgimento, empatia e condivisione degli obiettivi.
Se questi aspetti producono conseguenze particolarmente negative, perché minano alla radice il buon esito della trasformazione in atto, divengono ancora più deleteri nel momento in cui provocano la più totale incertezza sulle prospettive professionali e di vita di centinaia di colleghi tecnici e amministrativi. Questi ultimi, in particolar modo coloro che afferivano alle facoltà, sono stati sottoposti a laboriose ricognizioni delle competenze, ad approssimative valutazioni delle attitudini individuali e a un’estenuante attesa di assegnazione ad una nuova struttura. Spesso sono stati umiliati nelle loro aspettative e mortificati nella loro giusta esigenza di divenire soggetti attivi e non passivi di un percorso mirato di valutazione. In definitiva si sono sentiti trattati come sudditi e non come cittadini.
Quale futuro potrà avere una struttura complessa e articolata come l’Alma Mater Studiorum se questi sono stati i presupposti della grande trasformazione epocale? Quale rinnovato spirito di collaborazione, quale profondo senso di appartenenza all’istituzione, quale disponibilità a rimettere in gioco professionalmente se stessi ci si potrà attendere da colleghi considerati in più occasioni come semplici numeri, come pacchi postali perfettamente interscambiabili da smistare tra varie destinazioni possibili e non, in ultima istanza, come persone preziose e insostituibili?
E ancora, era davvero necessario spingersi oltre ogni ragionevole limite di buon senso per saggiare la loro capacità di reazione al cambiamento e la loro tenuta psico-fisica? È stato saggio farli divenire le cavie di un affascinante ma spericolato e oneroso esperimento in campo organizzativo? Direi proprio di no, e temo che il futuro prossimo venturo ne sarà un buon testimone.